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 2014  giugno 21 Sabato calendario

UOMINI, TORI E MINOTAURE NELL’ETA’ DELLA CRISI

Siviglia. Poiché da queste parti la “corrida a piedi” nacque a inizio Settecento, si sente dire spesso che in nessuna città come a Siviglia sia possibile testare la salute della corrida. Quest’anno, durante la Feria de Abril, la cattiva gestione della celebre Maestranza ha mostrato terribili crepe che hanno fatto parlare di inesorabile decadenza. «Nulla è per sempre, bisogna ricordarselo» ripetevano i vecchi appassionati, inviperiti contro gli impresari dell’arena, colpevoli di meschinità che hanno tenuto fuori dal cartellone i migliori toreri e i migliori tori. Eppure la Maestranza di Siviglia non è la Scala della corrida. La Scala è Las Ventas, a Madrid. E lì, in quella che Hemingway ribattezzò «la capitale del mondo», pochi giorni fa si è chiusa la feria di San Isidro, un mese di corride quotidiane, la feria torera più lunga del mondo, salutata dal re dimissionario Juan Carlos e da migliaia e migliaia di aficionados, come sono detti qui gli appassionati di tori.
Tornando nell’Andalusia profonda, José Tomas, il più grande dei matadores viventi, è tornato il 19 giugno a sfidare tori a Granada dopo oltre un anno di assenza, riempiendo la città all’inverosimile. Messicani, francesi, italiani, inglesi, oltre a spagnoli di ogni dove. Abbonamenti alla feria cittadina cresciuti del 400%. Hotel e ristoranti pieni. Un indotto di cui ancora non si rivela la magica cifra, mentre gli addetti al turismo si leccano i baffi, benedicendo il santo di Galapagar, paese in provincia di Madrid dove Javier Tomas nacque 39 anni fa, per crescere con i tori e una sola squadra nel cuore: ovviamente, l’Atletico.
È davvero in crisi, allora, la corrida, come sembrano sostenere inchieste, indagini e un senso comune che, sullo slancio dell’abolizione catalana e dell’estremismo animalista dilagante, ha spinto a credere che di corride non se ne faranno più e che, se nel frattempo sopravvivono, nei paesi in cui sopravvivono, chi partecipa si deve almeno vergognare?
Ma veniamo all’uomo e al suo mondo. Nel secondo decennio del nuovo millennio sono ormai dimenticati i ragazzini che percorrevano le strade di Spagna in cerca di un sogno (i maletillas detti così per il fagottino di tela in cui chiudevano le quattro cose di cui erano in possesso lanciandosi alla ventura) e nessuno penserebbe mai di sfuggire alla povertà facendosi torero. Eppure le scuole taurine sono piene e toreri continuano a nascerne. Com’è possibile? Al di là delle interpretazioni – innumerevoli – una cosa è certa: il confronto con la morte non ha tempo. Comunque stiano le cose, si continua a morire. Anche in un’epoca in cui si idolatra l’eterna giovinezza. Nonostante le chirurgie estetiche, le creme contro l’invecchiamento, i magici elisir, si continua a invecchiare e morire. E la questione della fine – assolutamente metastorica, del tutto al di là dei tempi in cui viene posta – continua a richiedere una riflessione. Il confronto con la morte resta un passaggio obbligato. Ecco la sfida tauromachica allora. Da millenni il luogo dell’incontro fra l’uomo e la sua parte più oscura, il suo toro, la sua paura più profonda, la fine.
Nella plaza de toros assistiamo a tutto questo. Viviamo in prima persona e fuori dai simbolismi la sfida alla morte. Celebriamo, nell’ultimo rito laico, il confronto dell’uomo con se stesso e con la sua paura più grande: il suo toro da conquistare, dominare e semmai innalzare in un’altra dimensione. Tanto che chi, infine, avrà il coraggio e il desiderio di partecipare all’incontro fra uomo e animale, potrà sperare di assistere all’evento più unico e sognante che la tauromachia moderna ci conceda: l’indulto. La conclusione più straordinaria e folle della sfida alla morte. Quando torero e toro si uniscono in una danza perfetta. Quando la carica rettilinea dell’animale è diventata definitivamente curvilinea tracciando cerchi di arte sull’arena. E quando dunque uomo e animale cominciano a scambiarsi i ruoli. L’animale assumendo un’umanità impossibile. L’uomo assumendo la sua stessa animalità. Il momento del minotauro, l’unione perfetta e innaturale che spinge il pubblico, in estasi, a chiedere la salvezza del toro. L’indulto catartico. L’animale che viene salvato per tornare negli allevamenti e farsi padre di tori altrettanto forti e coraggiosi come si è dimostrato lui. Mentre l’uomo ha la sensazione immensa, folle, ebbra, di aver trasfigurato, almeno per un istante che sembra eterno, la propria mortalità.