Cesare Alemanni, Rivistastudio.com 23/6/2014, 23 giugno 2014
L’AUTORITRATTO
Se negli ultimi tre anni non vi siete dati all’eremitaggio completo dovreste conoscere il significato della parola selfie, gli autoscatti “da smartphone – a social network” ormai così sdoganati da essere finiti persino a Porta A Porta. Dovreste anche sapere che il termine è stato eletto parola dell’anno 2013 dai curatori dell’Oxford Dictionary, talmente attenti da aver rintracciato il suo concepimento in un forum australiano nel 2002. Talmente scrupolosi da aver catalogato una serie di sue possibili varianti: helfie (autoscatto per soli capelli), belfie (autoscatto per solo sedere), welfie (autoscatto ginnico), drelfie (autoscatto alcolico), shelfie (autoscatto con scaffali) e bookshelfie (autoscatto con libreria). Quando si dice padroneggiare i prefissi.
È evidente che selfie sta vivendo il suo apice di popolarità, nonostante alcuni critici abbiano talvolta rimarcato se non l’inutilità almeno la ridondanza del termine. A loro giudizio i nostri vocabolari disponevano già di una parola con le adeguate connotazioni. Quella parola è ovviamente “autoscatto”. Secondo altri però il fenomeno selfie ha delle peculiarità tutte sue, che la parola autoscatto non riesce ad esaurire. Per Jerry Saltz, ad esempio, che ha scritto un bel pezzo in merito sul New York, la specificità del selfie come genere non è solo tecnologica; è prettamente estetica: «Il selfie ha i suoi contrassegni. Esclusi quelli realizzati utilizzando uno specchio – un distinto sottogenere dell’universo in questione – i selfie sono quasi sempre ripresi a distanza di braccio dal soggetto. Per questa ragione il quadro e la composizione dei selfie sono decisamente diversi da quelle di tutti gli autoritratti che li hanno preceduti. Si nota per esempio la quasi costante presenza di una delle braccia del fotografo, tipicamente quella che regge la camera. Predominano le cattive angolature e il soggetto è quasi sempre scentrato. Il grandangolo di molte fotocamere degli smartphone esagera le dimensioni dei nasi e dei menti, e il braccio che tiene la camera appare spesso sproporzionato. Insomma se entrambe le mani sono nella foto e non è uno scatto realizzato attraverso uno specchio, tecnicamente, non è un selfie, è un autoscatto».
Autoscatto e selfie hanno però almeno una cosa in comune. Un antenato nobile la cui comparsa risale a ben prima non solo di iPhone e Samsung Galaxy ma anche delle prime macchine fotografiche: l’autoritratto nell’arte. Un genere che, come racconta lo storico inglese James Hall in un libro uscito di recente dal titolo The Self-Portrait: A Cultural History, ha una storia molto più lunga e origini molto più remote di quanto si potrebbe sospettare. Se infatti la storiografia tradizionale ascrive la comparsa e la diffusione dell’autoritratto al periodo rinascimentale e la sua definitiva esplosione al Barocco (si pensi all’assiduità con cui Rembrandt ha visitato il genere), il libro di Hall ambisce a retrodatarne la nascita all’Alto Medioevo.
A differenza di ciò che si sarebbe portati a credere, secondo Hall l’elemento decisivo nella fioritura del genere non è stata la diffusione degli specchi (ancora una volta: una tecnologia) nel tardo Quattrocento ma, semmai, l’emersione intorno al 700 d.C. di nuove necessità spirituali e rappresentative, strettamente connesse al sentimento religioso e alla pratica quotidiana degli amanuensi. «È opinione diffusa – scrive Hall – che l’individualismo sia nato intorno al 1500 e che in quel periodo siano stati inventati i primi specchi di cristallo di buona qualità, i quali hanno permesso alle persone di osservare se stesse più chiaramente. E che quindi l’irresistibile ascesa dell’autoritratto sia emersa da questa “tempesta culturale” perfetta. Innegabilmente c’è un elemento di verità in tutto questo: il 1490 è stata una decade cruciale per l’arte, un periodo in cui si è assistito a una crescente attenzione nel distinguere la personalità e lo stile dei singoli artisti. Ma questa lettura ignora ciò che è avvenuto prima, in età medievale, e appiattisce ciò che è avvenuto dopo. Gli sviluppi nella tecnologia degli specchi sono largamente irrilevanti per la storia dell’autoritratto e questo “mito dello specchio” ha annebbiato a lungo le discussioni su questo genere. Buoni specchi di metallo levigato esistevano dall’antichità e hanno continuato a essere in uso ben oltre il 1600. [...] In realtà è proprio durante il Medioevo che gli specchi diventano potenti simboli culturali, metafore per ogni genere di sapere, sia riguardo a se stessi che riguardo al mondo esterno. Ma il “mito dello specchio” rinascimentale ha oscurato il contributo del Medio Evo e limitato la nostra capacità di apprezzare ciò che un autoritratto può essere. Ci ha portato a credere che un autoritratto punti esclusivamente alla somiglianza con il soggetto (auto)ritratto».
E invece secondo Hall – che peraltro dedica i primissimi capitoli del libro anche a un rapido excursus degli sporadici esempi di autoritratto nell’antichità – sono proprio gli autoritratti di età medievale, scarsamente verosimiglianti e perlopiù opera di amanuensi, a dirci qualcosa di universale sul genere. Spesso di piccole dimensioni, iscritti all’interno di un capolettera, sistemati ai bordi di una pagina o a margine di un’immagine religiosa, gli autoritratti degli amanuensi sembrano voler lasciare ai posteri una umile testimonianza dell’esistenza terrena del loro artefice, voler offrire una finestra, oggi diremmo un backstage, sulla sua attività e sulle condizioni in cui essa si svolgeva. È il caso, per esempio, dell’autoritratto di Rufillus de Weissenau che iscrive se stesso sotto la pancia di una R e – in un gioco di rimandi tra copista e lettore – si ritrae nel gesto, miniaturizzato, di dipingere la lettera e quindi anche se stesso al suo interno. Un gioco di specchi che anticipa di cinque secoli un altro gioco di specchi e rimandi. Ovvero quello che, secondo Jerry Saltz, è il più notevole proto-selfie della storia, “Autoritratto entro uno specchio convesso” del Parmigianino (1524), a sua volta citato in “Mano con sfera riflettente” di Maurits Cornelius Escher, il maestro dei paradossi ottici che, tra le sue ispirazioni, contava a sua volta questa illustrazione quattrocentesca per un volume del De Mulieribus Claris di Boccaccio.
Avendo inaugurato l’ “era della specularità”, l’autoritratto medievale, scrive sempre Hall, contiene in nuce tutti gli elementi che hanno caratterizzato il genere in seguito, fino ai giorni nostri, e sì, fino al selfie. Il cui movente non è poi così diverso da quello che, secondo Hall, spingeva gli amanuensi a inserire se stessi ai margini di una Passione: la necessità di comunicare qualcosa riguardo alle condizioni dell’autore, in parte ovviamente per vanità e narcisismo, ma più spesso semplicemente – come scrive Jarry Saltz nel suo breve saggio: «Per mandare dei piccoli noi stessi nel mondo. Dare agli altri un senso di ciò che siamo, fargli sapere dove ci troviamo e cosa stiamo facendo. I selfie sono le nostre lettere al mondo. Piccoli diari visivi che ingigantiscono, riducono, drammatizzano e dicono: “Guardami, sono qui”».