Mauro Bottarelli, pagina99 21/6/2014, 21 giugno 2014
SE WALL STREET BENEDICE L’INSIDER TRADING
A spiegarne al grande pubblico la natura e l’importanza per il mondo degli affari fu Michael Douglas nei panni di Gordon Gekko in Wall Street, quando istruiva il giovane Bud Fox sul «valore dell’informazione». In dollari, s’intende. L’insider trading, ovvero l’utilizzo di notizie riservate sulle prospettive di un titolo o di un’azienda sui mercati, al fine di ottenere un profitto speculando su quel titolo o su quell’azienda prima che la notizia divenga di dominio pubblico, è la più antica ed endemica pratica della finanza.
In particolar modo, sono molto sensibili a questa pratica i processi di fusione e acquisizione di aziende, le cosiddette M&A (mergers and acquisitions), che mettono varie persone a conoscenza di mosse che possono cambiare completamente l’andamento di un titolo: ci sono i diretti interessati ma anche gli studi legali che seguono l’operazione o, nel caso delle Ipo, i collocamenti, chi tratta il placement del nuovo titolo e ne forma di fatto il prezzo di apertura nelle contrattazioni. E, non ultima, la stampa finanziaria.
Troppi occhi e troppe orecchie sono coinvolti in questi passaggi e la conferma, storicamente, viene data da movimenti anomali di titoli e opzioni poche settimane prima dell’annuncio ufficiale delle operazioni. Tutti sanno a cosa sono dovuti ma tutti tacciono, nella speranza di poter essere il prossimo fortunato. Le dimensioni di questo fenomeno sono state svelate di recente da uno studio condotto da due professori della Stern Business School della New York University e da uno della McGill Univesity, analizzando centinaia di transazioni tra il 1996 e la fine del 2012.
Prendendo in esame i movimenti dei prezzi delle opzioni sui titoli azionari – ovvero quegli strumenti derivati che consentono di acquisire il titolo in futuro a un prezzo predeterminato – lo studio giunge a strappare il velo di ipocrisia che nascondeva in trasparenza l’insider trading come pratica strutturale della finanza.
La prima conclusione dello studio è che l’attività inusuale di questi strumenti comincia mediamente 30 giorni prima dell’annuncio ufficiale di accordo. La seconda è che, nonostante la sistematicità di questa pratica, la Sec – l’autorità di vigilanza dei mercati statunitensi – ha avviato pratiche informative soltanto sul 4,7% dei 1859 casi di operazioni M&A trattati nello studio.
Il problema è che anche quando la Sec agisce, i tempi giocano a suo sfavore. Ci vogliono infatti mediamente 756 giorni per l’annuncio pubblico di indagine e, prima di arrivare all’eventuale condanna, passano almeno due anni. Tra i casi più clamorosi analizzati sono i movimenti anomali su opzioni prima del leveraged buyout di Heinz da parte di Warren Buffett e 3G Capital, quando due fratelli brasiliani, Rodrigo e Michael Terpins, utilizzarono informazioni riservate sull’operazione, operando attraverso un conto di brokeraggio svizzero di Goldman Sachs detenuto da una società con sede alle isole Cayman. I due vennero sanzionati con una multa da 5 milioni di dollari ma non è mai stato chiarito quanto riuscirono a guadagnare, e far sparire, prima della sanzione.
Lo studio evidenzia poi come la probabilità che ci sia insider trading aumenta quanto più grande è il valore dell’accordo e più alto il volume di trading sul titolo: operando quando il volume di scambi sale, si ha infatti maggiore possibilità di nascondere le proprie compravendite anomale.
Ma il dato che maggiormente fa riflettere riguarda la diffusione dell’insider trading. Si potrebbe arrivare al 25%, un quarto di tutti gli accordi tra aziende quotate.
A questo punto qualcuno, sulla scorta dell’evidenza, comincia ad avanzare un’ipotesi: non sarebbe meglio legalizzare l’insider trading, visto che si tratta di fatto di un crimine senza vittime e che comunque la sua diffusione è tale da non permettere il suo contrasto attraverso la Sec? La pensa così, ad esempio, Carol Roth, autrice del libro The entrepreneur equation, a detta della quale sarebbe proprio l’investitore medio a beneficiare dell’insider trading, poiché questo rende il mercato più efficiente: «Ovviamente chi beneficia delle informazioni asimmetriche sono i big guys ma anche i little guys possono trarre dei vantaggi, avendo più persone che entrano in gioco e danno informazioni al mercato», spingendolo più velocemente sui prezzi di equilibrio.
«Più incentivi la gente ad andare in giro e cercare informazioni, più queste informazioni arriveranno velocemente sul mercato» è la tesi di cui si fa forza Roth. Una tesi forte, forse azzardata ma che va impattare con una realtà che il recente studio di cui abbiamo parlato svela nella sua crudezza: l’insider trading è parte integrante del modello di business di Wall Street. Insomma, c’è e non si capisce come poterlo debellare, visti i numeri che la Sec fornisce rispetto alle sue investigazioni e alle condanne. Allora meglio davvero legalizzarlo?
Di parere contrario è Harvey Pitt, capo della Sec dal 2001 al 2003, a detta del quale c’è una sola, semplice parola per descrivere l’insider trading: furto. «L’idea che in qualche modo sia permesso perché questo rende più efficienti i mercati va contro il pensiero economico e legale. Non c’è alcuna giustificazione per l’appropriazione indebita di informazioni altrui e questo crea chiaramente delle vittime», ha dichiarato parlando alla Cnbc. Tanto che sulle 103 piazze finanziarie oggi esistenti nel mondo, ben 87 prevedono esplicitamente la fattispecie del reato di insider trading.
Infatti, un mercato in cui alcuni operatori possono guadagnare per il solo fatto di trovarsi al posto giusto nel momento giusto è un mercato il cui funzionamento è di fatto asimmetrico così che, mentre i piccoli investitori subiscono le variazioni dei prezzi dei titoli senza poter fare nulla a riguardo, pochi nell’ombra si portano a casa ingenti somme di denaro. Nel caso già citato dell’insider trading sulla Heinz, il valore delle opzioni acquistate dai fratelli Terpins aumentò di quasi il 2000% dopo l’annuncio pubblico. Un meccanismo premiale che lascia dubbi circa l’opportunità di questa forma di intermediazione.
Una cosa è certa, comunque. Dai tempi di Gordon Gekko non è cambiato nulla. D’altronde, fu proprio il rampante Bud Fox, ancor prima di essere tramutato in un rogue trader seriale dal suo diabolico mentore, a vendere l’informazione privilegiata sulla linea aeree per cui il padre lavorava come meccanico e sindacalista, al fine di far colpo sul finanziere senza scrupoli. Forse, allora, è davvero nella natura intrinseca del business. O di chi lo conduce. E la natura, si sa, è dura a piegarsi.