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 2014  giugno 21 Sabato calendario

LA BIG SOCIETY DELLE ONG LIQUIDA LO STATO SOCIALE

Un pomeriggio qualsiasi una donna con il figlioletto nel passeggino entra nella cripta di un’austera chiesa londinese, San Giovanni Battista a Hoxton – un’imponente costruzione di mattoni scuri in stile-vittoriano, circondata da prato recintato, grandi alberi e panchine. Il bambino è socievole e attira le effusioni degli adulti. Un’anziana coppia parla a voce bassa con un volontario che prende nota su un registro. Nella sala accanto due donne armeggiano tra scanali di scatolame, riso, pasta, zucchero, barattoli di marmellata, pacchi di pannolini.
L’austera sala parrocchiale ospita una food bank, o «banca del cibo», iniziativa di beneficenza tornata in auge in questi anni di austerità in Gran Bretagna.
In tutta la Gran Bretagna sono centinaia le «banche del cibo» gestite da grandi fondazioni caritatevoli o da piccoli gruppi locali. Non che sia una novità, charities e volontariato sociale hanno una lunga tradizione in questo Paese.
Qui siamo nel municipio di Hackney, pochi isolati a nord dei grattacieli della City, il cuore della finanza. È una vecchia roccaforte della classe operaia con parti risanate e in ascesa, altre ultrapopolari, per lo più multietnica, a volte sinonimo di emarginazione. E neanche questa è una novità. Di nuovo c’è che il sistema delle food bank e un ibrido. Da un lato è beneficenza nel senso più classico, perché le “banche” raccolgono donazioni in denaro o in prodotti alimentari da distribuire ai bisognosi. I beneficiari però sono persone indirizzate qui per lo più da un assistente sociale, un operatore sanitario o dal distretto scolastico. Insomma, da un rappresentante delle istituzioni pubbliche. Come se lo Stato avesse cominciato ad abdicare le sue funzioni.
«Quando un cliente arriva controlliamo i registri, da chi è stato mandato, cerchiamo di capire la situazione», dice Liza Cucco, la giovane responsabile di questa food bank («Sì, li chiamiamo clienti: per mantenere un tono alla pari»).
I volontari propongono qualche alternativa riguardo al cibo – riso o pasta, cereali o porridge, secondo le preferenze e le disponibilità. Poi riempiono sacchetti tipo supermarket, «così sembra che sei andato a fare la spesa» e non devi vergognarti. «Si stabilisce un contatto amichevole, aiutiamo a risolvere vari problemi. L’altro giorno c’era un signore che teme di perdere l’appartamento comunale per un debito di 300 sterline, lo abbiamo mandato da un consulente legale». La giovane donna con bambino lavorava presso una grande banca, ha perso il lavoro dopo la maternità. Come madre sola ha diritto a un sussidio ma lo aspetta da mesi.
Ai primi di giugno tre note organizzazioni umanitarie hanno diffuso un documento allarmante: Oxfam, la Church Action on Poverty e il Trussel Trust dichiarano di aver distribuito oltre 20 milioni di pasti nell’anno concluso questo aprile, cioè più del doppio dell’anno prima.
Il solo Trussell Trust, fondazione caritatevole cristiana che gestisce la più ampia rete di food bank nel Regno Unito, ha visto arrivare nell’ultimo anno oltre 900 mila persone, adulti e bambini bisognosi di aiuto. Quasi il triplo rispetto all’anno prima. Ma questa è solo la punta dell’iceberg, avverte, a cui si sommano centinaia di simili iniziative di beneficenza gestite da parrocchie, moschee o altri gruppi locali.
Nel loro rapporto (Below the breadline), le tre charities sottolineano che è la combinazione di costo della vita, salari stagnanti e tagli al sistema di welfare pubblico a spingere più persone a chiedere sostegno alle food bank. I prezzi dei beni alimentari sono cresciuti del 43% negli ultimi otto anni, mentre da quando è cominciata la recessione i salari sono fermi e il reddito a disposizione dei lavoratori è sceso in media del 20%.
Intorno alla chiesa di Hoxton ci sono blocchi di council homes, le case popolari. Alcune sono ben tenute, altre trasandate e squallide. Altrove le vecchie case municipali sono diventate graziose casette private in zone «rigentrificate». Fu Margareth Thatcher negli anni ’80 a spingere i lavoratori a comprarle, una stanza per volta. «Il costo degli affitti è una delle grandi questioni, continuano a salire mentre i sussidi per la casa si riducono», osserva Liza Cucco.
Fa impressione vedere le facce imbarazzate che bussano alla food bank. «Non sono necessariamente disoccupati – più spesso vediamo qui persone che hanno un lavoro sottopagato, part time» spiega Cucco. Persone che hanno perso il lavoro per assistere un parente malato e ora passano da un lavoretto occasionale all’altro. Oppure hanno un lavoro, ma il salario è così basso, che a volte sei costretto a scegliere se comprare il cibo o pagare la luce.
La food bank di Hackney è affiliata al Trussell Trust («ma ci gestiamo come gruppo locale, siamo un franchising sociale») e i suoi «clienti» sono sia bianchi britannici sia minoranze etniche, parimenti colpiti da quella che le organizzazioni umanitarie chiamano food poverty: la povertà che ti costringe a saltare i pasti.
Un documentario trasmesso giorni fa da Channel 4, Breadline Kids, ha mostrato una nuova frontiera della povertà nel Regno Unito, quella dei “breakfast club”: quando gli insegnanti di alcune scuole elementari hanno capito che avevano in classe scolaretti affamati hanno cominciato a organizzare la prima colazione. Ora circola una petizione al governo per istituzionalizzare la colazione per tutti i bambini che già hanno diritto al free meal, la mensa gratuita. «Che bello, se mamma non ha soldi posso fare colazione qui», si rallegra una simpatica bimba bionda sullo schermo.
In cerca di immagini meno dickensiane, mi sposto in una sede sindacale. «È vero, puoi avere un lavoro e non riuscire a pagare cibo e bollette» mi dice Zita Holbourne, attivista sociale e sindacalista, che incontro nella grande sede dell’Unione dei dipendenti pubblici a Clapham, a sud del Tamigi. «È molto semplice: i salari sono congelati da anni mentre tutti i prezzi sono aumentati. E le pensioni sono ridotte». Anche lei parla di lavoro sottopagato. Magari hai un zero-hour contract (contratto “a zero ore”): l’azienda ti chiama solo quando serve, e ogni settimana vieni a sapere se è quante ore lavorerai la settimana successiva. Forse quaranta, forse solo tre. È un contratto molto in voga nelle grandi catene di fast food o di supermercati, ma anche in alcuni grandi uffici. Per il lavoratore significa vivere nell’incertezza più totale, ci sono settimane in cui non guadagni un centesimo.
Ma non è tutto, aggiunge l’attivista agitando una nerissima capigliatura rasta, «perché i tagli ricadono in modo sproporzionato sulle comunità svantaggiate, che poi sono molto spesso le minoranze etniche».
Zita Holbourne è la cofondatrice di Barac (Black Activists Rising Against the Cuts, “attivisti neri contro i tagli”, e per black intende africani, caraibici, ma anche ispanici o asiatici. Tutti i non bianchi). «Ci sono oltre un milione di giovani disoccupati in Gran Bretagna, e la metà sono neri». Così nei quartieri più depressi la tensione sale. Tanto più che la pratica poliziesca dello stop and search, ferma e perquisisci, mette nel mirino in primis i giovani neri, sottolinea la Holbourne. «Mio figlio viene fermato anche tre volte alla settimana, senza apparente motivo». Il razzismo della polizia è oggetto di denunce e inchieste. «I riots dell’estate 2011 erano cominciati quando la polizia ha sparato a un uomo di colore, disarmato. Non sarei stupita di una nuova esplosione».
L’attivista parla come un fiume in piena. «Più sei povero, più ti succhiano soldi. Hai notato quanti pawn shops (banchi dei pegni), ci sono nei nostri quartieri? E quanti payday loans, gli sportelli che offrono piccoli prestiti, pari a una settimana di salario? Se calcoli su un anno fanno interessi del 500%, roba da usurai. Poi c’è l’energia a ricarica: se non hai credito per un contratto per luce o gas puoi fare una carta prepagata, così quando hai un po’ di quattrini compri una ricarica e per qualche giorno hai il riscaldamento, altrimenti stai al freddo. Ma la tariffa prepagata è più alta di quella a bolletta. Tutti modi per sfruttare i più poveri».
Zita Holbourne ride sarcastica: «David Cameron parla di big society? Il volontariato, l’attivismo sociale, i sindacati, sono sempre esistiti. Ma non è questo che intende: la sua idea è passare alle grandi charities il peso dell’assistenza».
«La moltiplicazione delle food bank è direttamente legata ai tagli al welfare pubblico», spiega Mary O’Hara, giornalista e autrice di Austerity Bites (Policy Press, 2014), libro in cui studia la nuova faccia della povertà britannica, quella legata ai programmi di austerità lanciati dal governo di David Cameron nel 2010. È il piano di tagli alla spesa pubblica più massiccio mai visto nel Regno unito, «neppure Thatcher aveva osato tanto». In pochi anni decine di miliardi di sterline sono scomparsi dalla spesa pubblica, in vari round, e in gennaio il ministro del tesoro George Osborne ha annunciato nuovi tagli per 25 miliardi di sterline nei prossimi due anni, di cui la metà nella sicurezza sociale.
Tra il 2010 e il 2015 saranno stati tagliati in tutto 64 miliardi di sterline, secondo le stime del Centre for Welfare Reform.
I tagli ricadono a pioggia sui bilanci dei consigli comunali, quindi sui servizi alla comunità. Ma soprattutto è eroso il sistema dei benefit – assegni di disoccupazione e assegnai familiari, sussidi per l’affitto etc. – che costituiscono, insieme al Sistema sanitario nazionale, il cuore della rete di protezione sociale costruita nel Regno Unito dopo la Seconda Guerra Mondiale.
È un piano di austerità «senza precedenti», insiste O’Hara, «non solo per l’ampiezza dei tagli, ma perché stanno ridisegnando l’intero sistema. E a gran velocità: in due anni abbiamo visto cambiare tutto. La riforma del welfare lanciata nell’aprile 2013 ha avuto un impatto disastroso». Ed è stata una scelta politica, aggiunge. «Il governo l’ha presentata come la risposta a una crisi molto grave. Ma è discutibile che la priorità fosse pareggiare il bilancio, e in ogni caso potevano tassare le grandi fortune, la finanza, o colpire l’evasione fiscale. Invece hanno scelto di tagliare il welfare. Del resto, lo stesso Cameron lo ha ammesso, lo scorso novembre, a un banchetto ufficiale delle élite londinesi. Vuole “uno stato più agile ed efficiente”. E smantellare il sistema di protezione sociale, “non solo ora ma in permanenza”. Il sogno di Thatcher si avvera.»
Oggi non solo i sussidi sono di fatto diminuiti – perché restano fermi mentre il costo della vita sale – ma è più facile perderne il diritto. Nella sala parrocchiale di Hoxton, Liza dice che la perdita dei benefit è il primo problema di chi si rivolge alla sua food bank. «Il sistema di sanzioni è sempre più draconiano», spiega. Se percepisci benefit devi cercare lavoro, ma se sei in ritardo a un colloquio per un impiego perdi l’assegno per quella settimana. C’è chi ha perso il sussidio perché doveva presentarsi allo sportello del welfare alla stessa ora di un colloquio di lavoro, o perché è in ritardo, o ha il bambino malato e non può muoversi.
«È un sistema punitivo, che punta a colpevolizzare», osserva O’Hara, «Del resto il linguaggio corrente è molto negativo: chi prende sussidi è pigro, inaffidabile, un peso. Parlano di “cultura della dipendenza” come se uno prendesse i sussidi per scelta, non per necessità».
L’immagine negativa appiccicata al welfare ha avuto un ruolo determinante nel far passare l’idea che i tagli siano necessari. «Se chiedi in giro, si favoleggia di benefit generosi e di gente che ne approfitta. In realtà gli assegni sono esigui e il tasso di abuso è molto basso. Ma è così facile demonizzare chi ha bisogno». Torna così in auge la vecchia idea dei poveri «non meritevoli». Meno stato, più beneficenza: bentornati all’età vittoriana.