Sergio Rizzo, Corriere della Sera 23/6/2014, 23 giugno 2014
I MILIARDI SCOMPARSI CHE IL FISCO NON INCASSA
Domandona: che cosa si potrebbe fare con 620 miliardi di euro? Per esempio dare una botta pazzesca al debito pubblico: dal 137,5 al 97,8 per cento del Prodotto interno lordo. Oppure non far pagare l’Irpef agli italiani per quattro anni. O ancora, avviare un gigantesco piano di opere pubbliche del valore di 110 Mose. Siamo ai confini della realtà, penserete. Invece no. Perché 620 sono esattamente i miliardi di crediti da riscuotere che Equitalia aveva in carico alla fine del 2013.
Dentro quella incredibile montagna c’è di tutto, compresi gli 80 miliardi dovuti all’Inps e una quindicina di miliardi di multe e tasse comunali non pagate. Soprattutto, ci sono 500 miliardi di crediti dell’Agenzia delle Entrate: dei quali almeno 350 rappresenterebbero l’evasione fiscale vera e propria accertata.
Una cifra mostruosa, che va considerata ovviamente al lordo degli errori, accumulatasi a partire dal 2000 a un ritmo di una cinquantina di miliardi l’anno, salita a 75 nella media degli ultimi tre, perché la società creata nove anni fa non riesce a incassarne che una frazione. Il dieci per cento, sì e no. Al punto che questo è diventato il problema più grosso del Fisco italiano. Continuando a questo ritmo, nel 2018 i crediti fiscali potrebbero raggiungere la somma astronomica di 950 miliardi.
Stop alle banche, nasce Equitalia
Ma facciamo un passo indietro. Un tempo il recupero delle imposte non pagate era affidato ai concessionari privati, quasi sempre di emanazione bancaria. Come la cronaca si è incaricata di dimostrare, era un autentico disastro. Riscuotevano soprattutto il loro aggio, e qualcuno faceva sparire anche i soldi destinati al Fisco. Così nel 2005 si decise di fare una società pubblica, Riscossione spa (che sarebbe poi stata ribattezzata Equitalia). Azionisti, l’Agenzia delle Entrate e l’Inps. Sembrava l’uovo di Colombo. Ma pieno di zavorra. Intanto i dipendenti: Equitalia dovette assorbire quelli delle ex concessionarie, dove le banche proprietarie non avevano di sicuro collocato il personale migliore. Ritrovandosi sul groppone 8.240 buste paga. Poi le regole: privatistiche per il conto economico della società, pubbliche per la riscossione. Non solo. La legge gli aveva consegnato poteri enormi nei confronti dei piccoli debitori, come le ganasce alle auto e l’ipoteca immobiliare, ma assolutamente inadeguati a incassare dai grandi evasori, anche se scoperti con le mani nel sacco. Se sia stata una scelta deliberata o soltanto una serie di tragici errori lo dirà la storia. Sappiamo però che in tutti questi anni nessun governo ha mosso un dito per cambiare l’andazzo.
Tra piccoli e grandi evasori
I numeri sono sotto gli occhi di tutti. Mentre a partire dal 2007 gli accertamenti dell’Agenzia delle Entrate decollavano, e il ricavo della lotta all’evasione con i pagamenti «spontanei» direttamente alla medesima Agenzia salivano da 1,9 ai 5,6 miliardi del 2013, gli incassi di Equitalia crescevano a un ritmo medio decisamente inferiore: 2 miliardi e mezzo l’anno. Grazie solo agli introiti delle partite di importo più modesto. La dimostrazione sta nei numeri. La riscossione per conto dei Comuni ha sfiorato il 40%, quella delle cartelle Inps il 20% e quella dei crediti fiscali appena il 6%. E di questo 6%, la quasi totalità riguarda il recupero di tasse già dichiarate dai contribuenti. Restano l’evasione fiscale vera e propria accertata a partire dal 2000, dove non si arriva neppure al 3%. Dieci miliardi su 350, che hanno riguardato anche in questo caso prevalentemente le partite minori.
Risultato: piccoli debitori imbufaliti, l’immagine di Equitalia ammaccata, grandi evasori al sicuro. Di più. La cattiva fama che circonda la società ha indotto i politici a ridurne sempre più i poteri. Dunque il tetto minimo di 20 mila euro alle ipoteche, i limiti alla pignorabilità dei beni e dei salari nonché alle ganasce, il divieto all’esecuzione forzata sulla prima casa, la moltiplicazione delle notifiche, le facilitazioni concesse al debitore nella sospensione della riscossione. Con la conseguenza di ridurre i già magri incassi di Equitalia di un miliardo l’anno.
Come si è arrivati a questo è stato in parte già spiegato. Pressata dall’esigenza di far tornare i conti aziendali, Equitalia riscuoteva dov’era più facile incassare facendo la voce grossa con le ganasce e le ipoteche. Anche perché l’obbligatorietà della riscossione coattiva per tutte le pratiche, indipendentemente dall’ammontare, faceva sì che la burocrazia divorasse tutte le energie relegando le posizioni più difficili da aggredire sempre in fondo al mucchio. Tanto più che gran parte del personale non ha neppure le competenze necessarie per scovare il malloppo sottratto all’Erario.
Più poteri all’Agenzia?
È stato calcolato che l’80% dell’evasione accertata dall’Agenzia e affidata per il recupero a Equitalia fa capo a soggetti falliti o presunti nullatenenti. Innumerevoli sono i casi in cui i beni finiti nel mirino del Fisco magicamente passano di mano. Inutile scovare gli evasori se poi non si intascano i soldi. Ragion per cui servirebbero un know how investigativo e poteri coercitivi assai diversi. Così c’è chi ha ipotizzato di affidare i dossier più scottanti all’Agenzia delle Entrate che può mettere in moto la Guardia di Finanza per inseguire le tracce del denaro. Intervenendo magari anche su certe regole della riscossione coattiva, finora fallimentari.
La partita delle nomine
La morale? Diciamo pure che quei 620 miliardi non si potranno prendere proprio tutti. Ma anche se riuscissimo a recuperarne un decimo, ci pensate?
Tutta materia per il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, come pure per il nuovo direttore dell’Agenzia: Rossella Orlandi, toscana di Empoli, stimata direttrice delle Entrate in Piemonte che ha subito promesso guerra ai grandi evasori. Prima donna a ricoprire un incarico tanto importante è stata nominata da Matteo Renzi al vertice operativo del Fisco con la benedizione dell’ex ministro delle Finanze Vincenzo Visco, al termine di una vicenda che non ha precedenti. Perché la scelta di Padoan, che ha il potere di proporre il nome al Consiglio dei ministri, era caduta invece sul numero due di Attilio Befera: Marco Di Capua, ex finanziere, corresponsabile di una gestione dell’Agenzia che aveva portato a quei risultati in termini di accertamenti. La proposta era stata regolarmente formalizzata e si attendeva soltanto la ratifica del decreto da parte di Palazzo Chigi. Ma non era stata messa nel conto la freccia al curaro che ha colpito Di Capua sul più bello: quando alcuni giornali lo hanno qualificato come tremontiano nonché amico di Marco Milanese, ex deputato del Pdl sotto inchiesta per corruzione e già braccio destro di Giulio Tremonti. Amicizia fatale, ancorché tutta da dimostrare. Fatale almeno quanto questa dichiarazione pubblica dell’ancora influente Visco: «Un governo di destra ha organizzato l’amministrazione finanziaria più repressiva. Non a caso ci sono tutti questi ufficiali della Guardia di Finanza». Di Capua, appunto. D’obbligo ricordare che pure Luigi Magistro, attuale capo di dogane-monopoli ed ex collega di Di Capua e di Rossella Orlandi, fresco di nomina nel consiglio di amministrazione di Equitalia con la prospettiva di assumerne la presidenza in vista della sua riorganizzazione, viene dalle Fiamme Gialle.