Antonio Galdo, Il Messaggero 22/6/2014, 22 giugno 2014
LA BATTAGLIA DELL’ENERGIA
L’ANALISI
Petrolio e gas. Gas e petrolio. Ne avremo bisogno ancora a lungo e la guerra energetica resta il più grande conflitto mondiale, neanche troppo latente, in quotidiana evoluzione. Ovunque si combatte con le armi, nel nome profanato di una religione o di un nuovo imperialismo, c’è il fuoco acceso del controllo delle fonti energetiche, della ricchezza che possono generare per chi le possiede e delle paure che nascono in chi invece, come l’Italia, ne è dipendente. Prezzi, rifornimenti, accessi: tutto si mescola in uno scacchiere geopolitico dove l’energia resta la madre di tutte le battaglie, come è sempre stato nella storia, dalla rivoluzione industriale in poi. Ma quali sono oggi i fronti più caldi di questa guerra infinita? E noi italiani quale ruolo abbiamo nel risiko energetico?
L’UCRAINA E L’EUROPA
I nostri rubinetti del gas dipendono, per il 40 per cento, dalle forniture della Russia e il 15 per cento dell’intero fabbisogno europeo arriva nei paesi dell’Unione attraverso l’Ucraina. Bastano questi numeri per capire quanto la crisi di Kiev e i ricatti di Mosca possono condizionare, con pesanti ripercussioni, gli approvvigionamenti energetici e l’intera economia. In una delicatissima partita geopolitica Vladimir Putin sembra avere il coltello dalla parte del manico, e quando minaccia di tagliare le forniture a Kiev in realtà sta mettendo sotto scacco l’Europa. Con due obiettivi: spaventarla, fino a rappresentare un’emergenza gas (già annunciata da Bruxelles) in coincidenza dell’arrivo del prossimo inverno, e indebolire l’asse dell’Unione con il governo di Kiev per dare campo libero alla grandeur zarista di Putin. Tra l’altro, di fronte al ricatto di Mosca, l’Europa è sola e, come al solito, unita solo a parole, non certo nei fatti. Gli Stati Uniti, grazie alla rivoluzione dello shale gas, sono ormai i primi produttori mondiali, hanno superato la Russia e non devono fare i conti con i suoi ricatti energetici. La Germania, l’azionista di riferimento dell’Unione europea, ha invece una dipendenza dal gas russo simile alla nostra (37 per cento), e mentre ha scommesso sulle fonti alternative per migliorare la sua bilancia energetica, non ha alcuna intenzione di arrivare, in questa fase, a uno scontro con Putin. Dunque, il Cremlino rischia di vincere la sua partita senza eccessivi conflitti di fronte a un’America irritata ma non per questo pronta a intervenire e all’Europa paralizzata dalla sua impotenza e dai rischi energetici che l’avvolgono.
Iraq tra America e CIna. Tra un presidente americano interventista, George W. Bush, e un altro riluttante, Barack Obama, c’è un pezzo di storia mondiale. E c’è il disastro dell’Iraq, oggi piombato nel caos, con le truppe delle milizie jihadiste e con la nuova organizzazione Isil (Stato islamico di Iraq e al-Sham, Levante) che di fatto controllano quasi un terzo del territorio. E si avvicinano al traguardo di mettere le mani sull’Eldorado del petrolio. I numeri sono impressionanti, nonostante le devastazione che il Paese ha subito in anni di combattimenti. Le riserve di petrolio iracheno valgono 145 miliardi di barili, e sono le seconde al mondo dopo quelle dell’Arabia Saudita. Il Paese produce, in gran parte nelle regioni meridionali ancora controllate dalle forze governative, circa il 3,5 per cento del greggio mondiale, con 3,4 milioni di barili al giorno, un livello record negli ultimi trent’anni. Lo sanno bene le grandi major, tutte presenti in Iraq, con piani di evacuazione già in pieno svolgimento.
LA PARTITA IRACHENA
Ma la partita dell’Iraq è troppo importante, sul tavolo degli approvvigionamenti energetici, per essere lasciata nelle mani del governo di Bagdad e dei suoi incalzanti avversari. E qui la storia, come spesso accade di fronte alle leggi e agli interessi dell’economia, rischia di capovolgersi. Se Bush è stato il protagonista di una guerra, che poi si è dimostrata disastrosa per i risultati, spinto anche dalle pressioni delle major americane che volevano mettere le mani sul petrolio iracheno, Obama è stato costretto a cambiare linea rispetto ai suoi annunci di totale disimpegno militare nell’area. Oggi il presidente americano, che ancora non ha una strategia chiara e rischia di fare il bis del suo goffo stop and go rispetto alle azioni criminali della dittatura siriana, cerca di sparigliare il tavolo, non escludendo azioni militari, inviando un manipolo di marines in Iraq, ma innanzitutto - è questo è un fatto veramente nuovo sul piano geopolitico - cercando sponde con gli odiati nemici del regime iraniano. È un gioco pericolosissimo e ad alto rischio.
LA CINA
Intanto nelle maglie larghe della debolezza americana, negli spazi che si sono aperti in seguito al suo disimpegno nella polveriera dell’Iraq, si è inserita alla grande la Cina. L’Iraq è ormai il quinto fornitore di greggio a Pechino, dunque è diventato un Paese strategico per il rifornimento energetico della Cina a corto di petrolio, e le esportazioni da Bagdad sono aumentate, soltanto nel 2013, del 50 per cento. Non solo. Tra le major internazionali presenti sul territorio si è piazzata in prima fila Petrochina, che ha ormai il controllo delle estrazioni nei più importanti giacimenti del Sud. E la Cina, a differenza dell’America, non ha incertezze sulla sua strategia nella regione, né deve fare i conti con la pressione dell’opinione pubblica che negli Stati Uniti è ormai stanca di guerre fino a invocare una sorta di neo isolazionismo energetico. Così il governo di Pechino è stato chiaro, annunciando che darà «ogni aiuto possibile» al governo di Bagdad per non perdere il controllo del territorio.
LA NIGERIA E L’AFRICA
L’Africa già controlla il 10 per cento delle riserve mondiali di petrolio e l’8 per cento di quelle del gas, e le prospettive sono impressionanti se si tengono presenti i 200 miliardi di barili di riserve stimate e il fatto che il Continente africano potrebbe, da qui al 2016, accogliere il 30 per cento degli investimenti offshore, circa 50 miliardi di euro. La quantità più alta della produzione del petrolio made in Africa si concentra in Nigeria con 2 milioni e mezzo di barili di greggio al giorno. Un Paese così ricco, con una crescita economica galoppante al ritmo del 7 per cento l’anno, vive però nell’incubo della miseria, della corruzione e della guerra. Nonostante il petrolio abbondante. Il 69 per cento della popolazione è sotto la soglia della povertà, e la Nigeria risulta al 137esismo posto su 174 paesi monitorati da Transparency International. L’economista nigeriano Obiageli Ezekwesili, ex vicepresidente della Banca Mondiale per l’Africa, ha calcolato che dall’indipendenza del 1960 ad oggi almeno 400mila milioni di dollari di entrate per il petrolio sono stati rubati o malgestiti. Dalle porte della miseria e della corruzione passa l’affondo di Boko Haram, con la sua organizzazione terroristica jihadista, che da oltre dieci anni sta sterminando i cristiani (un tempo erano la metà dei 167 milioni di abitanti) e regolando i conti all’interno dei potentati dell’estremismo islamico. Con un obiettivo preciso: blindare un Paese che ha tutte le potenzialità per essere prospero, e controllare dalla Nigeria i rubinetti del petrolio e del gas africano. Cioè la più importante fonte di potenziale ricchezza del Continente Nero.