Dario Di Vico, Corriere della Sera 22/6/2014, 22 giugno 2014
LE IMPRESE E IL PATTO CON LO STATO
Nel cerimoniale delle assemblee confindustriali gli interventi di fine mandato dei presidenti quasi mai lasciano il segno. Più spesso si snodano al ritmo di un malinconico «avrei voluto ma non ho potuto». E invece ieri il numero uno di Unindustria Treviso, Alessandro Vardanega, salutando i 3 mila associati presenti (e cedendo il posto a un’imprenditrice, Maria Cristina Piovesana) ha illustrato nel discorso degli addii il manifesto di un capitalismo popolare, antropologicamente distante dalle élite quanto insofferente di burocrazia e fisco. Un capitalismo di Piccoli che devono farsi nuovo ceto dirigente imparando a considerare l’evasione e la corruzione «come due attività criminali», non vivendo di localismi e rimpianti e, anzi, ricordandosi che a Venezia quando sono venute meno l’innovazione e l’intraprendenza «è iniziato un declino che l’ha portata a un suicidio istituzionale». Che parlasse della Venezia del tempo dei dogi o di quella degli scandali del Mose poco importa, Vardanega ha rivendicato alla storia della piccola impresa un ruolo da «infrastruttura sociale» capace sia di incanalare le spinte dal basso nella democrazia partecipata sia di favorire la redistribuzione della ricchezza. «Siamo stati noi a fare una vera politica dei redditi» (e non la politica) e oggi siamo ancora tanto in palla da macinare record su record nelle esportazioni. Nei talk show televisivi, al contrario, ci si compiace per la crisi del Nord Est e si trasmettono «quotidianamente immagini di capannoni vuoti, di falò di protesta e, purtroppo, di funerali». I luoghi comuni sulla nostra industria, secondo Vardanega, continuano a sprecarsi, «troppo parcellizzata, troppo dispersa per innovare, troppo familiare per crescere e poco internazionalizzata per sopravvivere». Invece la società della piccola impresa ha tutte le carte in regola per giocare la partita della modernità, in fondo è essa stessa una complessità organizzata in rete e quindi non ha nessuna remora a confrontarsi con i network più evoluti e il mondo di Internet.
Per farlo però ha bisogno che venga riscritto il patto tra i produttori e lo Stato. «Oggi più che i cinesi a minacciare il binomio impresa e democrazia in Italia sono le inefficienze e un fisco insostenibile espresse da un Paese che non riesce a diventare alleato delle sue moltissime aziende e che da troppo tempo ha smesso di amare i propri lavoratori». Non ci può essere un’amministrazione tributaria onnipotente che può accusare e persino riscuotere anche in assenza di prove, che può procrastinare all’infinito qualsiasi rimborso e agire sulla base di semplici presunzioni. «Dove ci sono sudditi non c’è democrazia» ha scandito il presidente uscente e ha chiesto però anche ai politici locali di aggiornare il loro software rinunciando alle dispute da campanile. Il governatore Luca Zaia, presente, non ha gradito.