Maurizio Caverzan, Il Giornale 21/6/2014, 21 giugno 2014
GOMORRA «SHAKESPEARE A SCAMPIA COSÌ PORTO IN SCENA IL MALE»
[Intervista a Stefano Sollima] –
Astinenza da Gomorra. È trascorsa più di una settimana dalla fine della prima stagione della serie-evento dell’anno e la scimmia si fa sentire. Firmata da Stefano Sollima, regista e supervisore artistico ( alcuni episodi sono stati diretti da Francesca Comencini e Claudio Cupellini), recitata in napoletano stretto e trasmessa da Sky Atlantic, Gomorra. La serie è il miglior prodotto di fiction mai realizzato in Italia. Ora che 60 Paesi stranieri l’hanno acquistata, è stata rinnovata per una seconda stagione. Ma per vederla bisognerà attendere. Sollima è un regista under 50, occhi azzurri capello corto t-shirt e chiodo grunge, due figli di sei e otto anni cui dedica il tempo libero, autore di Romanzo criminale 1 e 2 e di Acab al cinema. Per il quale sta per iniziare a girare Suburra tratto dal libro di De Cataldo e Bonini.
La seconda stagione di Gomorra potrà essere all’altezza della prima ?
«Perché no? Il secondo Romanzo criminale fu girato senza il Libanese, protagonista del primo, e non andò male...».
La gestazione di Gomorra è stata lunga. Adesso tempi di scrittura e di montaggio saranno più brevi.
«Personalmente ho presa in mano la scrittura un anno prima della programmazione. Stiamo scrivendo il soggetto di serie da un bel po’. Molto lavoro è già stato fatto per la prima stagione, come l’ambientamento in quei territori. Anche il casting sarà più semplice.Semmai l’impegno vero è un altro ».
Dica.
«Corrispondere alla fiducia accordata dal pubblico. Ma il successo è una scommessa vinta che possiamo ricapitalizzare».
La prima serie si chiude con Genny ancora vivo mentre arriva la polizia. Suo padre evade dalla galera e ci entra lui?
«Non lo dirò mai».
Quanto dobbiamo aspettare per saperlo?
«Inizieremo a girare quest’inverno. Da quel momento ci vorrà un anno ».
Non sarà una serie annuale?
«Quella è la periodicità del mondo anglosassone. Gomorra è un prodotto tv girato come un film. La cura e la particolarità di produzioni come queste non si prestano a una serialità bloccata ».
Qualcuno ha ritenuto troppo fumettistico il finale.
«A me non è parso sopra le righe. Mentre lo giravamo un boss della ’ndrangheta è evaso in quello stesso modo. Ci è sembrato il modo giusto per rimettere in gioco il boss che ormai il pubblico dava per sconfitto. È un meccanismo che abbiamo adottato dal primo episodio nel quale muore Attilio, fino a quel momento raccontato come uno dei protagonisti. Non succede mai quello che ti aspetti».
Il figlio inadatto che si emancipa, il ruolo delle donne, il capo del clan scissionista che torna da Barcellona in auto per uccidere: tutte storie vere. Avete attinto più dalla cronaca o dal libro di Saviano?
«Ovviamente il libro di Saviano è il punto di partenza. La sua indagine giornalistica è stata la nostra base».
Poi è subentrata la cronaca?
«Più che prendere dalla cronaca, il nostro è un modo di osservare la realtà. Quando metti su carta un racconto fai già un lavoro di finzione. Questa è la parte giornalistica del mio lavoro. Tutto quello che ci siamo prefissi vivendo e narrando il mondo di Scampia o di Ponticelli è non tradire mai la realtà».
All’inizio non temeva che il brand Gomorra potesse risultare logoro e causare un effetto-rigetto?
«Se n’è parlato tanto. Però no, per me è un libro, non un brand limitante. Piuttosto mi è parso che quel mondo potesse essere esplorato in modi diversi. Lavorare con Saviano è stato un grande stimolo ».
Come ha fatto a vedere Ciro Di Marzio in Marco D’Amore con capelli ricci e 20 chili in più?
«Mi hanno colpito la profondità dello sguardo e l’abilità recitativa, non solo tecnica. Sono professionalmente abituato ad andare oltre la fisicità immediata».
Non si è visto nulla del percorso di trasformazione di Gennarino in Genny...
«Il racconto di Gomorra cambia angolazione continuamente. Per mostrare il ritorno a Napoli di Gennarino avevamo scelto gli occhi di donna Imma. Perciò dovevamo stare con lei. È una narrazione più ellittica che didascalica. Produttivamente Salvio Esposito è stato fermo due mesi e per trasformarsi è andato molto in palestra. Poi però è arrivato il suo momento...».
L’idea del tradimento di Shakespeare, il microcosmo criminale di Scampia, il noir francese: altri riferimenti?
«Sono mondi che abbiamo... Niente di teorizzato. Anche il libro di Saviano non ha una traccia definita, è un mosaico di situazioni. Abbiamo distillato una traccia semplice, un archetipo, la storia di una famiglia. Questo credo sia uno dei motivi per cui è piaciuta».
Come le è venuta quell’inquadratura rasoterra sulle scarpe di don Pietro Savastano quando lo trasferiscono?
«Cercavo un’immagine che rendesse la sua fragilità e mi pareva che quella difficoltà di mettersi le scarpe, infilandoci le mani, la rendesse».
Come risponde a chi dice che non c’è il Bene né la denuncia del Male?
«Il pubblico è perfettamente in grado di fare le proprie valutazioni su quello che vede senza che qualcun altro gli dia la sua ricetta. Non c’è bisogno di contrapporre il Bene per rappresentare il Male. L’assenza del bene non genera ambiguità morale ».
Realismo assoluto, imprevedibilità, forza del cast, scrittura. In che percentuale pesano sulla riuscita della narrazione?
«La cosa meravigliosa del mio lavoro è che è una ricetta in continua evoluzione. Gli ingredienti e la chimica cambiano. Senza un ottimo cast e un gran lavoro di scrittura non si va da nessuna parte. Ma non ci sono formule definitive ».
Un altro elemento è la scenografia: le Vele come un tempio, le case dei boss...
«Abbiamo vissuto quel territorio come un set naturale. Decidevamo di girare in un posto e qualche giorno dopo saltava tutto perché lì avevano sparato a uno boss vero. Questo ci metteva in gioco di continuo e riformulava ogni momento il nostro rapporto con la realtà».
Altra componente fondamentale: la musica.
«Visto il tema e l’approccio, non ne abbiamo abusato quanto ero tentato di farlo. La musica è un altro modo di raccontare. Se spettacolo dev’essere,dev’esserlo per tutti i sensi».
Come nasce la figura dello showrunner?
«Finora in Italia lo si è sempre fatto coincidere con il regista. Nella serialità anglosassone è uno sceneggiatore. Noi abbiamo mescolato una parte dell’incarico della sceneggiatura con il lavoro del regista».
Tra Romanzo criminale e Gomorra c’è stato Acab e nient’altro. C’è lentezza nel mondo cinematografico italiano nell’accorgersi dei propri talenti?
«Per me no. Diciamo che alcuni generi cinematografici sono stati abbandonati. Chi fa gangster- movie, thriller e horror si trova in svantaggio rispetto a chi lavora nella commedia dove c’è più ricambio».
Non è che lei frequenta poco le terrazze?
«Ho un lungo elenco di persone che le frequentano e hanno lavorato un decimo rispetto a me. Il pubblico ti segue perché l’hai stimolato con una promessa. E ti resta attaccato perché si ritrova in quel che vede».