Isidoro Trovato, Corriere economia 23/6/2014, 23 giugno 2014
IL MADE IN ITALY CHE VINCE? HA I PIEDI BEN PIANTATI PER TERRA
Forse aveva ragione Dwight Eisenhower quando sosteneva che «l’agricoltura sembra molto semplice quando il tuo aratro è una matita e sei a un migliaio di miglia dal campo di grano». Oggi è facile fare proiezioni e previsioni sul ruolo cardine dell’agricoltura nel mondo che verrà: si prevede che l’incremento demografico su scala globale, la crescita del potere di acquisto di paesi popolosi come Cina e India e il passaggio da un’economia basata sui combustibili fossili ad altre forme energetiche eserciteranno una pressione sempre maggiore sui terreni agricoli.
Secondo una stima della Commissione europea, nel 2050 la domanda di prodotti agricoli crescerà del 70% mettendo sotto pressione i sistemi ambientali e agro-alimentari, amplificando il pericolo della scarsità di cibo.
Questo farà aumentare il «peso specifico globale» del mondo agricolo: chi avrà in mano acqua e cibo controllerà una fetta considerevole di potere planetario? In realtà l’equazione non è così semplice. «Le grandi potenze mondiali si stanno attrezzando da anni per questo scenario — spiega Pier Luigi Romiti, direttore di Fedagri-Confcooperative — . Lo stesso stanno facendo le multinazionali agricole, ma dubito che ci possano essere super potenze in grado di controllare i flussi del cibo secondo uno schema che possa replicare ciò che accade oggi per esempio per il petrolio. Le colture speciali continueranno a esserci e a rivolgersi a un pubblico sempre più selezionato».
Costi e valore
Una prospettiva che potrebbe favorire proprio la peculiarità delle nostre colture. «È innegabile che l’Italia non potrà mai svolgere un ruolo di primo piano nel campo delle commodities come cereali, soia, mais o riso — continua Romiti —. In compenso le nostre colture hanno grandi potenzialità tra i prodotti nella fascia di lusso. Del resto non è un segreto che l’agroalimentare italiano è uno dei settori che ha conservato meglio la redditività durante la crisi ». Basta dare un’occhiata al mercato della terra agricola per capire che proprio le aree di coltivazione vocate e di alto valore sono quelle che stanno crescendo di più negli ultimi anni. Ad esempio i terreni vitati hanno fatto registrare un incremento doppio rispetto all’inflazione. Complessivamente il prezzo medio della terra rimane su livelli abbastanza elevati (circa 20 mila euro per ettaro) ma è nelle regioni settentrionali che i valori nelle zone più vocate di pianura e di collina difficilmente scendono sotto ai 30- 40 mila euro per ettaro. Ai vertici i terreni trentini destinati alla coltivazione di mele e quelli che ospitano vigneti pregiati come Montalcino in Toscana o le Langhe in Piemonte. Il mercato fondiario del Friuli-Venezia Giulia, per esempio, ha conosciuto un’impennata quando la richiesta di terreni da destinare a nuovi impianti di vigneti per la produzione del Prosecco è risultata superiore all’offerta.
Fattori di crescita
Lo scorso anno l’export dell’agroalimentare ha toccato quota 33,4 miliardi con un incremento del 4,8% rispetto al 2012.
Una crescita che ha spinto gli agricoltori più dinamici a cercare di ampliare i possedimenti e questo ha fatto lievitare i prezzi. Altro aspetto determinante è rappresentato dalla diminuzione dei fondi coltivabili. L’Italia sta perdendo terreni agricoli in un trend negativo continuo. Secondo l’Istat, dagli anni 70 del secolo scorso ad oggi l’Italia ha perso una superficie agricola pari a Liguria, Lombardia ed Emilia-Romagna messe insieme. Le molteplici variabili che incidono sulla perdita di superficie agricola possono essere ricondotte a due macro-fenomeni: l’abbandono dei terreni da parte degli agricoltori e l’avanzamento delle aree edificate. La costante perdita di terreno agricolo induce l’Italia a dipendere sempre più dall’estero per l’approvvigionamento di risorse alimentari.
«Da una stima effettuata l’anno scorso — spiega Andrea Olivero, viceministro del ministero delle Politiche agricole — l’Italia produce circa l’80-85% delle risorse alimentari necessarie a coprire il fabbisogno dei propri abitanti. È indubbio che la sottrazione di suolo agricolo, connessa all’incremento di popolazione, determina in primo luogo una dipendenza del nostro paese dai mercati esteri, sottoponendoci, così, alle fluttuazione dei prezzi internazionali; questo è particolarmente vero in alcune produzioni dove siamo deficitari, come nel caso del frumento ma vi sono molte altre implicazioni dietro al consumo di suolo: basti pensare, che la competizione non favorisce la mobilità fondiaria per l’agricoltura e di conseguenza blocca la stessa competitività delle aziende». Come arginare il fenomeno? «Il Ministero — prosegue Olivero — sostiene fortemente ogni forma di tutela agricola perché la politica di contenimento nel consumo del suolo genera benefici, non solo di carattere ambientale e di sicurezza alimentare, ma tutela un chiaro vantaggio competitivo legato alla qualità, alla tipicità delle produzioni, nonché alla pluralità ed alla forte caratterizzazione del nostro paesaggio rurale. Ma regolare la competizione nell’uso dei suoli, visti gli interessi e le competenze istituzionali in gioco, non sarà semplice». Sì. Aveva proprio ragione Eisenhower.