Matteo Persivale, Corriere della Sera 21/6/2014, 21 giugno 2014
SE MI LASCI TI CANCELLO (DALLA MEMORIA MA ANCHE DALLA PELLE)
Melanie Griffith a Taormina l’altro giorno con il tatuaggio di un cuore, sul braccio, fresato al suo interno dal laser di un chirurgo, il nome del marito che l’ha abbandonata cancellato, come le rughe con il Botox, non è soltanto l’immagine della fine di una commedia romantica: è l’ultimo caso di una lunga serie di storie d’amore finite male e tatuaggi, di cancellazione della persona amata dalla propria vita e dalla propria pelle.
Negli anni Novanta, così lontani ma così vicini, Johnny Depp passò i tre anni di fidanzamento con Winona Ryder a esibire il tatuaggione «Winona Forever», ma per sempre ha molto spesso una data di scadenza, e quando la storia finì l’attore americano dal ciuffo ribelle come la vita sentimentale fece per una volta una scelta minimalista: tolse soltanto l’ultima sillaba e «Winona Forever» diventò il più greve «Wino Forever», vagabondo per sempre, un ripensamento di quelli che, studiando i pittori rinascimentali vediamo con i raggi X sotto gli strati di colore e sui corpi delle celebrities sono invece noti soprattutto ai loro dermatologi.
Paris Hilton, inguaribile ottimista, a soli ventidue anni si fece tatuare su una natica, tipo bestiame, il nome del fidanzato Nick Carter, ex-Backstreet Boys e alla fine inevitabile di quella passione canterina dovette correre dal chirurgo.
Un’altra bionda hollywoodiana, l’ex bagnina di Baywatch Pamela Anderson, si era tatuata il nome dell’allora marito, il cantante rockettaro Tommy Lee sull’anulare. Quando, dopo varie vicissitudini tra cui la diffusione su Internet di un pornovideo dei due, l’amore finì, «Tommy» diventò «Mommy», mamma, cambiando semplicemente l’iniziale. Fu meno fortunato lo sposo, che si era fatto tatuare il nome di lei in una zona inattaccabile dal laser, e che presumibilmente porta tuttora il marchio di quel matrimonio finito male.
C’è cascata inevitabilmente anche Kat Von D regina dei tatuaggi e del reality televisivo, che ora si trova sul costato la foto dell’ex compagno Jesse James.
Angelina Jolie, regina del cambiamento di look, è passata da cattiva ragazza che baciava il fratello in modo un po’ troppo affettuoso in diretta alla cerimonia degli Oscar, beveva il sangue del marito Billy Bob Thornton, rubava mariti altrui e si tagliava con appositi coltellacci acuminati, a benefattrice dell’Unicef e diva impegnata. Parte del «makeover» di Angelina comprende i tatuaggi, dei quali il suo corpo è abbondantemente decorato: c’era anche un dragone rampante con il nome dell’allora coniuge Billy Bob, che adesso è stato tolto tramite laser, e sono state sovrascritte le coordinate dei luoghi di nascita della sua numerosa prole, adottiva e biologica.
La povera Amy Winehouse, talento musicale bruciato dalla droga tre anni fa, sfoggiava una donna nuda — genere pin-up anni Cinquanta da marinaio — sull’esile braccio sinistro: in un soprassalto di modestia, Amy scelse verso la fine della sua vita di coprire il torace della ragazza tramite un bikini tatuato.
Certo l’immagine malinconica di Melanie Griffith dopo la separazione da Antonio Banderas non può non ricordare «Se mi lasci ti cancello», il film di Michel Gondry con Jim Carrey e Kate Winslet, una parabola cecoviana su un uomo che cerca di dimenticare la donna che l’ha lasciato grazie all’aiuto di un neurochirurgo che garantisce di cancellare dalla nostra memoria chi ci ha fatto soffrire. Come se le persone che abbiamo amato fossero folder di un computer, che basta cestinare per passare oltre.
Griffith & Banderas, coppia atipica per diciotto anni, la figlia biondissima della bionda hitchcockiana Tippi Hedren e il seduttore bruno dei film di Almodovar erano una di quelle coppie famose alle quali si pensava con simpatia. Lei tre anni più grande di lui e alle prese con gli strascichi di una gioventù agitatissima tra alcol e droga, lui icona gay e tombeur de femmes capace di convertire una carriera da attore molto europea in ruoli hollywoodiani senza perdere la cifra umanista e democratica della sua formazione spagnola.
Nel 1936, quando i tatuaggi non erano ancora di moda, Cole Porter — compositore che a distanza di tanti decenni continua a raccontarci con le sue canzoni allegre e allo stesso tempo un po’ tristi la verità sul nostro cuore — scrisse «I’ve Got You Under My Skin », incisa da tutti i grandi (compresa, due anni fa, Mina). Perché Porter, che conosceva Shakespeare («Non spillerò una sola goccia del suo sangue né ferirò quella pelle delicata, bianca più della neve e liscia più dell’alabastro», Otello) sapeva bene che nelle grandi storie d’amore la persona amata abita sotto la nostra pelle.
A profondità molto maggiori di quella dei tatuaggi e dell’amore a fior di pelle.