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 2014  giugno 21 Sabato calendario

IL DNA NON È LA «PISTOLA FUMANTE» ECCO PERCHÉ DA SOLO NON BASTA


Il Dna, questo sconosciuto. Servito in tavola con i servizi del tiggì o affrontato a colazione con i titoli dei giornali. Non c’è famiglia italiana che in quest’ultima settimana non l’abbia ospitato almeno una volta fra gli argomenti di casa: sarà un esame infallibile oppure no? Ma era sangue oppure sudore? E quel tipo arrestato è davvero l’assassino di Yara o gli scienziati possono sbagliare?
Ignazio Marcello Gallo ha novant’anni e, come dice lui, «mi occupo di diritto penale da quando ne avevo 22». Ex professore alla Sapienza, autore di moltissimi testi giuridici (sul dolo, l’imputabilità, la colpa...), è considerato uno dei più grandi giuristi italiani e di tutto questo discutere sul test del Dna ne fa quasi una questione filosofica: «Non credo nell’infallibilità degli approdi scientifici che per principio non considero definitivi ma provvisori. Fortunatamente al mondo è tutto in divenire: una scalinata che dobbiamo percorrere gradino per gradino e ognuno ci rimanda a uno successivo». Se insegnasse ancora, ai suoi studenti direbbe di «non accontentarsi mai della sola risultanza scientifica in un dato momento» perché «io ho un certo disagio a considerare il Dna una prova unica» e perché «per quanto la scienza possa considerare altissima una certa probabilità, per accertare la responsabilità c’è bisogno lo stesso di elementi ulteriori, esterni al dato scientifico».
Lo scenario al processo
Se è vero che nel caso di Yara la procura non ha soltanto l’esito del test per costruire il processo, è anche vero che però quello è fondamentale e che tutto gli ruoterà attorno. Dal punto di vista scientifico nemmeno un timore. «Il Dna funziona bene, non esiste nessuna probabilità di errore» giura Emiliano Giardina, il genetista dell’Università Tor Vergata che ha lavorato su «Ignoto 1». Che sospira e aggiunge: «A questo punto mi assumo la responsabilità di dire che dobbiamo superare il termine “compatibile” perché serve soltanto a confondere le idee. Compatibile vuol dire identico. È lui. Punto. Sennò la gente non capisce. E mi spiego meglio: la possibilità che due persone possano condividere lo stesso profilo genetico è di 1 seguito da 24 zeri. Per essere ancora più chiari: ci sono le stesse probabilità di vincere tre volte consecutivamente la lotteria degli Stati Uniti». E che non si parli di materiale degradato: «Se si degrada non dà segnale. Non è possibile che una traccia degradata porti in galera qualcuno».
Ma posto che il dato scientifico sia certo, il passaggio successivo, e cioè che Bossetti sia l’assassino, è tutt’altro che automatico. Per dirla con Marzio Capra, genetista milanese con un passato nei carabinieri del Ris, «il riscontro del Dna è un elemento certo che sta dentro un caso. Non mi dice che il soggetto è un assassino. Mi dice soltanto che c’è stato un contatto sicuro fra lui e la vittima. Faccio un esempio: se lui fosse l’uomo che ha spostato il corpo? Lo puoi condannare per omicidio? So che i colleghi hanno lavorato molto e approfonditamente, e so che dal punto di vista del risultato non ci sono dubbi. Io avrei preferito mantenere un frammento della traccia trovata per un eventuale dibattimento, ma questo non ha nulla a che vedere con l’esito del test».
L’esame irripetibile
Eccolo, un altro problema: pare non ci sia più materiale a sufficienza per ripetere l’esame del dna nel processo. Man mano che lo screening è andato avanti la materia biologica su cui lavorare è finita. E la difesa dell’imputato potrebbe farne un punto a suo favore. Perché se non si può ripetere il test significa che i consulenti delle difesa non possono partecipare all’esecuzione di un nuovo esame per verificare che tutte le fasi siano svolte correttamente.
«Sarà un caso interessante dal punto di vista della costruzione della responsabilità» prevede il professor Franco Coppi, avvocato di Raniero Busco, l’uomo accusato del delitto di via Poma. «In quel caso il Dna era stato il punto di svolta per riaprire il caso — ricorda — ma alla fine non è valso niente perché il povero Busco aveva avuto un rapporto con Simonetta Cesaroni prima dell’omicidio e quindi non era impossibile trovare le tracce di lui sul corpetto della ragazza. Questo dimostra che servono sempre tanti tasselli per il puzzle di un processo e di una condanna. Che la prova regina da sola non esiste».
Nuova luce sugli indizi
Anche l’avvocato Giuseppe Marazzita è incappato in un processo Dna-dipendente. Parliamo del caso dell’Olgiata, la contessa Alberica Filo Della Torre uccisa il 10 luglio del 1991. «Per noi è stato risolutivo. L’abbiamo invocato chiedendo la riapertura delle indagini e sapevamo che i progressi della scienza ci avrebbero aiutato anche dopo vent’anni». Così è stato: le tracce del Dna di Manuel Winston, il domestico, sul lenzuolo con il quale la contesa fu strangolata lo hanno incastrato. Lui ha confessato, tutti i vecchi indizi sono stati riletti alla luce del risultato del test e la verità è venuta a galla. «Se mi trovassi a difendere il presunto assassino di Yara — ipotizza Marazzita — direi che per adesso potrei parlare di indizi, prove che lui l’abbia uccisa non ne vedo».
La perizia e i falsi positivi
La faccenda del Dna che risolve tutto se la ricordano bene anche gli avvocati di Danilo Restivo, Alfredo Bargi e Marza Scarpelli. Restivo è stato incastrato per una perizia genetica che l’avvocato Scarpelli definisce «passata impropriamente come prova regina». È stato condannato a 30 anni per aver ucciso Elisa Claps, scomparsa misteriosamente a Potenza e ritrovata 17 anni dopo. «Secondo noi — dice l’avvocato — il risultato è molto incerto e potrebbe aver dato dei falsi positivi. Valuteremo tutto in Cassazione».
Per dirla con Ignazio Marcello Gallo: «Da che mondo è mondo gli scienziati affermano che i loro risultati sono certezze. Ma poi l’abbiamo visto: la terra non è piatta. Lo sviluppo ha dimostrato che così è per ogni cosa su questa terra: per l’uomo ogni passo avanti è da considerarsi un arricchimento prezioso. Ma poi ci vuole quello che noi chiamiamo un bagaglio probatorio sufficiente per affermare o negare le responsabilità di ciascuno». Viene in mente la prova regina per antonomasia: la confessione. «Per anni il feticismo del procedimento inquisitorio ha fatto credere al mondo che quella fosse una signora prova, unica addirittura. E poi abbiamo imparato che magari un uomo può anche confessare per risparmiarsi una tortura».