Carlo Bonini, la Repubblica 22/6/2014, 22 giugno 2014
DAL NOSTRO INVIATO
BERGAMO .
A chi si dichiara innocente è sempre chiesta una spiegazione alternativa e plausibile della catena di indizi che lo imprigionano. A chi è indiziato di aver ucciso un’adolescente di 13 anni «colpendola con pugni o corpi contundenti al capo, sulla nuca, sulla mandibola, e sullo zigomo sinistro e con uno strumento da taglio e punta», per poi abbandonarla «agonizzante » in un campo «dove la morte è sopraggiunta per ipotermia », è chiesto qualcosa di più. Un racconto particolarmente solido, convincente. Soprattutto quando l’accusa ha al suo cuore un test del Dna che la scienza vuole insuperabile. E così, il pomeriggio del 19 giugno, giovedì, Massimo Bossetti con al suo fianco l’avvocato Silvia Gazzetti, per circa un’ora, prova a rimontare la china rispondendo alle domande del gip Vincenza Maccora e del pm Laura Ruggeri, dando un ordine, un nome e un luogo alle cose. È un verbale che lo vede indicare circostanze che non sempre reggono ai riscontri che in queste prime 48 ore sono state fatte dal Ros dei carabinieri e dello Sco della Polizia. Ma è anche un verbale meno generico di quanto si
potesse immaginare e che per questo lo impegna, con il rischio di potersi trasformare in un’arma a doppio taglio.
MAI CONOSCIUTO YARA
Tre circostanze sembrano sconvolgere Bossetti. Quelle
che il gip gli contesta in apertura dell’interrogatorio. La scoperta che è suo il dna trovato sul corpo di Yara, quella di essere il figlio naturale di Giuseppe Guerinoni, l’accusa che lo vuole aver desiderato sessualmente una bambina di 13 anni. Dice: «Non ho ucciso Yara e non so come sia possibile che il mio dna sia stato trovato sul suo corpo. Non l’ho mai conosciuta, né mai incontrata ». Bossetti, dunque, non mette in discussione l’esito o il valore scientifico del test che è l’architrave dell’accusa che lo schiaccia. Semplicemente, lascia aperta la porta alla possibilità che quella traccia biologica sia finita lì per chi sa diavolo quale
ragione. Non ha risposte. O, almeno, se ne ha qualcuna non ritiene sia il momento di proporla. Piuttosto, sceglie di offrire a chi lo interroga (e che ne rimane comunque impressionato) l’immagine di un uomo dilaniato da ciò che lo ha travolto. «Sono una persona religiosa, un padre di famiglia. Porto i miei figli in chiesa. E per me fare o anche solo pensare certe cose sarebbe contro natura. Yara poteva essere mia figlia». «Non ho mai navigato su siti pornografici. Non ho mai fatto certe cose». Prosegue: «Sono sconvolto dallo scoprire che sono il figlio di Giuseppe Guerinoni. Mia madre (Ester Arzuffi, ndr) non me
ne ha mai parlato. E dunque io non lo sapevo».
QUELLA DOMANDA ALLA MADRE
Gip e Pm colgono l’occasione per incalzarlo. E allora perché — chiedono — nel 2012, chiese alla madre, Ester Arzuffi (che per giunta nel luglio di quell’anno si sarebbe sottoposta al test del Dna in questura a Bergamo), se conosceva Giuseppe Guarinoni? Che motivo c’era? Bossetti sembra avere pronta la risposta. «Perché in quei mesi, le cronache sulla morte di Yara parlavano del Dna di Guarinoni e avevo letto che l’ex autista aveva vissuto a Ponte Selva, dove sapevo che aveva vissuto mia ma-
dre». Bossetti fa di più. Si dice un avido lettore di “cronaca”. «Leggo sempre l’ Eco di Bergamo cui è abbonata mia suocera. E con il computer molti articoli su internet ». A chi lo ascolta non suonano proposizioni neutre. Piuttosto, una sorta di anticipazione alle possibili domande che arriveranno il giorno in cui saranno esaminati gli hard drive dei cinque tra computer e tablet che gli sono stati sequestrati al momento dell’arresto e saranno ricostruite, con i file cancellati, le cronologie di “navigazione” (l’esame del primo dei cinque “device” non ha sin qui dato alcun esito investigativo apprezzabile. Almeno nei file “in
chiaro”).
UN UOMO METODICO
Si arriva dunque alle domande sul pomeriggio del 26 novembre 2010. «Non ricordo con esattezza cosa feci. Direi quello che facevo sempre in quei giorni. Lasciavo il cantiere di Palazzago, dove lavoravo alla costruzione di una nuova abitazione insieme a mio cognato, quando faceva buio. Tra le 17 e le 17.15. Quindi, con il mio furgone (un Iveco daily cassonato color pistacchio chiaro, ndr), facevo sempre lo stesso itinerario. Da Palazzago, raggiungevo Brembate e, da qui, Mapello, dove abito ». Non è né un tragitto diretto,
né intuitivo, come accerta il Ros. Allunga la strada di 5 chilometri e di almeno un quarto d’ora. Perché dunque sceglierlo? Forse per passare dove Yara ha la sua palestra? E, soprattutto, perché, quel 26 novembre spegnere il cellulare dopo le 17.45? Bossetti dà questa spiegazione.
IL FRATELLO FABIO
«Spensi il telefonino perché in quel periodo avevo problemi con la batteria. Lo rimisi in carica a casa, dove avevo il telefono fisso». Quanto all’itinerario, spiega: «A Brembate, abita mio fratello minore Fabio, che vado spesso a trovare. C’è il mio commercialista, c’è il distributore della Shell dove faccio gasolio. C’è il bar dove vado sempre a prendere il caffé, l’edicola dove compro le figurine per i miei bambini». Plausibile? Raggiunto telefonicamente, Fabio Bossetti, che di mestiere fa l’idraulico, vive a poca distanza dalla palestra di Yara e come il fratello gira per lavoro su un piccolo furgone chiaro, chiude la conversazione in una manciata di secondi. «Non ho tempo per le sue domande». Ma, a verbale con il Ros, racconta di una frequentazione con Massimo assai rarefatta. «Non sono mai stato a casa sua. Passava lui. Direi una volta a settimana. Quando dovevamo discutere di lavoro». Anche il commercialista non era proprio un appuntamento fisso. «Veniva per le fatturazioni ogni 20 giorni, un mese», spiega a verbale. Per non parlare dell’edicola. Dice un investigatore: «È pensabile che un padre compri ogni sera delle figurine per i figli? E perché non prenderle a Palazzago?».