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 2014  giugno 21 Sabato calendario

APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 21 GIUGNO 2014


In base all’esame del Dna, l’assassino di Yara Gambirasio, uccisa a novembre del 2010, è Massimo Giuseppe Bossetti, 43 anni, titolare di un’impresa individuale di carpenteria, residente a Mapello ma originario di Clusone, sempre a messa la domenica, sposato, tre figli: un maschio e due femmine. Il profilo genetico ha anche rivelato che lui è il figlio illegittimo di Giuseppe Guerinoni, l’autista di Gorno (Valle del Riso), morto nel 1999. Massimo Giuseppe Bossetti è ora dietro le sbarre del “Gleno”, sorvegliato a vista 24 ore su 24, con l’accusa di omicidio. Per prendergli il Dna i carabinieri domenica 15 giugno hanno messo in scena un controllo con l’etilometro in strada, a Seriate: l’hanno fermato e gli hanno fatto soffiare nel macchinario come se stessero semplicemente compiendo ordinarie operazioni sul traffico [1].

Il Dna trovato sugli slip e sui leggings di Yara è compatibile al 99,99999987% con quello di Massimo Giuseppe Bossetti, l’assassino che, fino a qualche giorno fa, veniva chiamato in codice Ignoto 1 [2].

Massimo Giuseppe Bossetti era sotto controllo da venerdì, quando è stato trovato il Dna della mamma Ester Arzuffi, che di mestiere accudisce la vedova di un impresario edile, una donna di 67 anni che tutti descrivono ancora come energica, attenta a se stessa. Questa la ricostruzione degli inquirenti: nel 1966 si era sposata con un signore di nome Giovanni Bossetti e con lui viveva a Parre, lo stesso paese di Guerinoni, di cui è stata l’amante. Nel 1970, quando rimane incinta di Guerinoni, decide di andare via e si trasferisce a Terno d’Isola dove dà alla luce i due gemelli: al maschio dà lo stesso nome di battesimo del suo amante, la femmina invece viene chiamata Laura, come la moglie di Guerinoni. Suo marito li riconosce, li tratta proprio come fossero suoi. Dopo qualche anno arriva anche un terzo figlio e la famiglia decide di spostarsi a Brembate [2].

Giovanni Bossetti, che è un uomo molto malato (lunedì, quando hanno arrestato Massimo Giuseppe, ha chiesto di essere dimesso dall’ospedale dove era stato ricoverato), ai carabinieri: «Che vergogna, sono stato ingannato per quarant’anni. Ho sempre pensato che fosse figlio mio» [3].
Tutti i protagonisti del caso si proclamano innocenti. Bossetti dice: «Sono totalmente innocente. Non c’entro niente. Sono un padre. Ho tre bambini. Uno ha 13 anni, la stessa età di Yara. Non farei mai un’atrocità del genere. Non so spiegare perché il mio Dna sia finito sui leggings e sulle mutandine di quella bambina. Io Yara non l’ho mai vista né conosciuta. Ho visto il padre in un cantiere, ma dopo il fatto: l’ho riconosciuto perché c’erano le fotografie sui giornali e nei servizi televisivi. Alle sei di sera del 26 novembre 2010 ero a casa mia, con la mia famiglia. Mi hanno incastrato perché, dopo quattro anni, non trovavano nessun altro». Sua madre, Ester Arzuffi, dice: «Il dna sbaglia. Non è vero che Massimo e Laura siano figli di Guerinoni. Sono figli di mio marito. Al cento per cento. A meno che il mio cervello non abbia resettato tutto, questa è la verità. Vivevo a Ponte Selva come Guerinoni, ma era solo una conoscenza. Mio marito voleva cambiare lavoro, quindi ci siamo messi in macchina e siamo andati alla ricerca di un altro posto. L’abbiamo trovato alla Filco di Brembate di Sopra. Ci siamo trasferiti nel 1969, sarà stato marzo o aprile e i gemelli sono nati a ottobre del 1970, peraltro con un mese di anticipo. Come possono essere i figli di Guerinoni?». Anche la sorella Laura sostiene che Bossetti è stato incastrato. «È innocente al cento per cento» [4].

La moglie di Massimo Giuseppe Bossetti, Marita Comi: «Parlavamo di Yara ma lui era tranquillo, non ha mai mostrato nulla di strano. In questi ultimi anni non ha avuto alcun cambiamento rispetto al passato, non ha mai mostrato sbalzi di umore o particolari nervosismi. Non ho mai avuto sentore che a mio marito potessero piacere le donne più giovani. Lui è un bravo marito, molto dedito alla famiglia, ai figli. La sera non usciva quasi mai, stavamo spesso a casa. Se uscivamo era soltanto per vedere i familiari. Lui ha pochi amici, un giro ristretto» [5].

La moglie del Bossetti non si è detta certa che il marito fosse a casa la sera della scomparsa di Yara [6].

Oltre al dna, ci sono altri indizi di colpevolezza. Secondo indizio: il telefono cellulare di Bossetti aggancia la cella di via Natta a Mapello, la sera della scomparsa di Yara (era il 26 novembre 2010, la ragazzina era uscita di casa alle 17.30 per andare in palestra, il tragitto è di poche centinaia di metri) alle 17.45. Poi sta zitto fino alle sette della mattina dopo (però poteva essere scarico) [4].

Terzo indizio: il fratellino di Yara, nel luglio del 2012, racconta che la sorella gli aveva confessato di «aver paura di un signore in macchina che andava piano e la guardava male quando lei andava in palestra e tornava a casa percorrendo la via Morlotti. L’uomo aveva una barbettina come fosse appena tagliata, e una macchina lunga grigia». Yara glielo fece vedere una volta che erano in chiesa. Natan dice che era «cicciotello» e mercoledì scorso, quando gli hanno mostrato le foto, non ha riconosciuto Bossetti. Il giudice ritiene che sia comunque «un indizio che merita di essere approfondito». Se però quello che dice il fratellino è vero, come si spiega che Yara sia salita sull’«auto lunga e grigia»? Bossetti non può averla costretta a forza, perché a quell’ora la zona della palestra di Brembate Sopra è piena di gente (lo hanno verificato i carabinieri andando un anno dopo sul posto, alla stessa ora dello stesso giorno) [7].

Quarto indizio: l’autopsia su Yara dice che la bambina aveva nei polmoni polvere di calce proveniente da un cantiere e nelle scarpe aveva piccolissimi residui di materiali usati nell’edilizia. Bossetti fa il muratore e quel pomeriggio transitava nella zona in cui scompare Yara proprio mentre faceva ritorno dal cantiere di Palazzago, dove aveva lavorato con la calce tutto il giorno. Di più: gli esami scientifici su quelle polveri estratte dal cadavere di Yara le certificano incompatibili con altri luoghi, dove pure la ragazza avrebbe potuto respirarle: la sua casa, la palestra, la piscina, lo sterrato attiguo al campo di Chignolo d’Isola dove fu ritrovata senza vita. E ancora: sulle scarpe di Yara ci sono anche «piccole sfere di ferro-cromo-nichel». Anche queste «proprie di attività legate al mondo dell’edilizia» [7].

«Poi ci sono le incongruenze nel racconto dell’indagato e le bugie raccontate da sua madre Ester Arzuffi ostinata a negare che i due gemelli non siano i figli del marito Giovanni Bossetti, ma di Giuseppe Guerinoni. E il quadro si è arricchito due giorni fa con un’ammissione fatta dallo stesso indagato durante l’interrogatorio: «Quando venne fuori la storia che l’assassino era il figlio illegittimo di Guerinoni andai da mia madre Ester e gli chiesi se lo conosceva». Perché? Bossetti dice di non aver mai saputo di avere un altro padre. Quella richiesta potrebbe quindi essere indicativa della sua volontà di scoprire se l’inchiesta poteva puntare a lui o se invece andava in una direzione sbagliata» [8].

Nelle ultime ore un’altra circostanza è venuta ad aggiungersi ai «gravi indizi di colpevolezza» elencati dal giudice Ezia Maccora che ha ordinato la custodia cautelare in carcere per Bossetti: «Mentre Yara Gambirasio faceva ginnastica artistica, Massimo Giuseppe Bossetti era nei pressi della Città dello Sport di Brembate Sopra. È successo almeno tre volte nei giorni precedenti la sparizione della ragazzina. Il clamoroso dato arriva dall’analisi delle celle telefoniche ripetuta in queste ore dagli specialisti dello Sco della polizia e dal Ros dei carabinieri. E sembra confermare l’ipotesi degli inquirenti che l’uomo avesse «puntato» la sua vittima, che ne abbia studiato le abitudini prima di avvicinarla la sera del 26 novembre 2010 e portarla via. Prima di ucciderla» [8].

Se è vero che nel caso di Yara la procura non ha soltanto l’esito del test del dna per costruire il processo, è anche vero che però quello è fondamentale e che tutto gli ruoterà attorno. Emiliano Giardina, il genetista dell’Università Tor Vergata che ha lavorato su Ignoto 1: «Il Dna funziona bene, non esiste nessuna probabilità di errore. Mi assumo la responsabilità di dire che dobbiamo superare il termine “compatibile” perché serve soltanto a confondere le idee. Compatibile vuol dire identico. È lui. Punto. Sennò la gente non capisce. E mi spiego meglio: la possibilità che due persone possano condividere lo stesso profilo genetico è di 1 seguito da 24 zeri. Per essere ancora più chiari: ci sono le stesse probabilità di vincere tre volte consecutivamente la lotteria degli Stati Uniti». E che non si parli di materiale degradato: «Se si degrada non dà segnale. Non è possibile che una traccia degradata porti in galera qualcuno» [9].



Marzio Capra, genetista milanese con un passato nei carabinieri del Ris: «Il riscontro del Dna è un elemento certo che sta dentro un caso. Non mi dice che il soggetto è un assassino. Mi dice soltanto che c’è stato un contatto sicuro fra lui e la vittima. Faccio un esempio: se lui fosse l’uomo che ha spostato il corpo? Lo puoi condannare per omicidio? [...] dal punto di vista del risultato non ci sono dubbi. Io avrei preferito mantenere un frammento della traccia trovata per un eventuale dibattimento, ma questo non ha nulla a che vedere con l’esito del test» [9].

Il Dna che risulta “sovrapponibile” a quello di Bossetti viene recuperato dal Ris dei carabinieri sugli slip e i leggings indossati da Yara al momento della morte. È di «ottima qualità». E «si tratta – scrivono nella loro relazione tecnico-scientifica alla procura – di una traccia ematica, isolata in un’area attigua a uno dei margini degli indumenti recisi con un’arma da taglio». Quella traccia ematica è «mista». Contiene cioè il Dna di vittima e carnefice. «Perché – dice ora il pm Laura Ruggeri – è verosimile pensare che l’assassino, nel maneggiare uno strumento da punta e taglio, con una lama di almeno due centimetri di lunghezza e due millimetri di spessore e con una possibile copertura di titanio, si sia ferito». Da quella macchia di sangue, vengono dunque separati il profilo genetico di Yara e quello dell’uomo che l’ha uccisa. È un esame che viene ripetuto quattro volte, in altrettanti laboratori (il Ris di Parma, l’Istituto di Medicina legale dell’Università Statale di Milano, il laboratorio di Biotecnologia del San Raffaele di Milano, l’Istituto di medicina legale di Pavia). Con risultati che isolano un identico profilo biologico. Quello che risulterà di Bossetti. Senza dunque apparenti margini di errore in questo “processo di separazione” [10].

Problema: pare non ci sia più materiale a sufficienza per ripetere l’esame del dna nel processo. Man mano che lo screening è andato avanti la materia biologica su cui lavorare è finita. E la difesa dell’imputato potrebbe farne un punto a suo favore. Perché se non si può ripetere il test significa che i consulenti delle difesa non possono partecipare all’esecuzione di un nuovo esame per verificare che tutte le fasi siano svolte correttamente [9].

La difesa di Bossetti ricorderà casi, in tutto il mondo, in cui le prove costruite sul dna e basta si sono rivelate fallaci. La probabilità di errore, secondo statistiche elaborate in Usa, cresce quando la campionatura è così vasta (per individuare il dna di “ignoto 1″ in questi anni sono stati prelevati oltre 18 mila campioni genetici e non solo in provincia di Bergamo). Il biologo Massimo Sandal ha scritto: «Anche facendo le cose per bene e onestamente, l’incertezza del fattore umano è inevitabile. La lettura dei microsatelliti non è sempre perfettamente precisa, e a volte profili simili (ma diversi) possono sembrare identici. I campioni in teoria dovrebbero essere incontaminati, ma ovviamente non sempre lo sono. Per esempio il dna della vittima può contaminare quello del criminale, creando un profilo ibrido, o un tecnico può accidentalmente inquinare un campione con uno analizzato poco prima». Il dna, a quanto pare, non basta [4].

Tra i casi risolti con l’esame del dna, il delitto dell’Olgiata, quando sul lenzuolo stretto al collo della contessa, Alberica Filo della Torre, viene scoperto il codice genetico del suo cameriere filippino; o quello di Elisa Claps, con il dna di Danilo Restivo rinvenuto sulla maglietta indossata dalla vittima; o ancora la strage di Erba, quando dalla macchina di Rosa Bazzi, moglie di Olindo Romano, salta fuori il dna di una delle quattro vittime [11].

Tanti anche i casi in cui la «pista genetica» non è servita a nulla, ha sviato le indagini o lasciato mille dubbi. «Eclatante il «balletto» delle perizia nel caso Meredith Kercher. Amanda Knox e Raffaele Sollecito vengono condannati perché sulla lama del coltello ci sono tracce del dna di Meredith, sul manico quelle di Amanda, sul gancetto del reggiseno quelle di Sollecito. Ma nel primo processo d’appello il dna di Meredith viene ritenuto “non supportato da procedimenti analitici scientificamente valicati”, e quello sul reggiseno giudicato contaminato. Nella seconda sentenza d’appello lo stesso dna di Sollecito riacquista valore probatorio. Nel caso di Garlasco, sospettato di aver ucciso Chiara Poggi è Alberto Stasi. Sulla sua bici ci sono tracce del dna della vittima. Per i Ris è sangue della ragazza, per i difensori sudore o saliva. Il dna sulla bici viene giudicato “non grave” e Alberto assolto due volte. Nel 2013 il processo riparte daccapo e si cerca di individuare il dna su un capello trovato nel palmo della mano di Chiara. Tenuto conto che i due erano fidanzati, se il capello fosse di Alberto, sarebbe colpevole?» [11].

Franco Coppi, avvocato di Raniero Busco, l’uomo accusato del delitto di via Poma: «In quel caso il Dna era stato il punto di svolta per riaprire il caso, ma alla fine non è valso niente perché il povero Busco aveva avuto un rapporto con Simonetta Cesaroni prima dell’omicidio e quindi non era impossibile trovare le tracce di lui sul corpetto della ragazza. Questo dimostra che servono sempre tanti tasselli per il puzzle di un processo e di una condanna. Che la prova regina da sola non esiste» [9].
Il caso del “fantasma di Heilbronn”, dove una stessa misteriosa assassina sembrava coinvolta in 40 casi in mezza Europa, a giudicare dal dna. Ma non c’era nessuna serial killer: erano i tamponi usati per raccogliere il dna a essere giunti contaminati dalla fabbrica [12].

Il penalista Carlo Federico Grosso dice che «la coincidenza cromosomica costituisce elemento dotato di un coefficiente altissimo di attendibilità», «cionondimeno, neppure si può affermare che il caso sia, ormai, definitivamente risolto». Tutt’altro. In questo momento una sola circostanza è stata sicuramente accertata a carico di Bossetti: che egli è stato, fisicamente, vicino alla vittima. «Ciò consente di affermare che contro di lui pende un indizio gravissimo, quasi insuperabile, di colpevolezza. Manca tuttavia, a quel che consta, tutto il resto: la ricostruzione del contesto in cui il delitto è maturato, l’individuazione delle modalità dell’approccio dell’assassino alla persona offesa, l’accertamento di come la vittima è stata attirata nel luogo dove è stata aggredita, la ricostruzione della dinamica del fatto criminale, la ricostruzione dell’effettiva intenzione dell’assassino (chi ha ucciso la ragazzina voleva ucciderla fin dall’inizio, ha premeditato l’omicidio o aveva invece, originariamente, un’intenzione orientata in tutt’altra direzione?)» ecc. «Si tratta, si badi, di profili di grandissimo rilievo in un processo penale d’omicidio, che possono modificare profondamente la tipologia del delitto (omicidio premeditato, omicidio volontario in senso stretto, omicidio volontario caratterizzato dal solo dolo eventuale, omicidio preterintenzionale) e cambiare significativamente la dimensione della pena inflitta» [13].

Secondo Grosso, gli altri indizi a carico di Bossetti (la moglie che non ha confermato il suo alibi, la testimonianza del fratello di Yara, il cellulare dell’indagato spento mezz’ora prima che la ragazza uscisse dalla palestra ecc) sono «ancora troppo poco […] per essere assolutamente certi del risultato processuale. Nonostante la fortissima valenza indiziante del riscontro del Dna, se nel corso delle indagini, o nel processo, non dovessero emergere ulteriori apporti probatori, il processo che si profila avrà tutte le caratteristiche, e tutte le incertezze, del processo indiziario. A meno che dovesse sopravvenire – ma di ciò, fino a questo momento, non vi è la minima avvisaglia – una salvifica confessione liberatoria da parte dell’indagato» [13].

(a cura di Roberta Mercuri)

Note: [1] Tutti i giornali del 17/6; Paolo Berizzi, la Repubblica 19/6; [2] Tutti i giornali del 17/6; [3] Marco Imarisio, Corriere della Sera 19/6; [4] Giorgio Dell’Arti, La Gazzetta dello Sport 21/6; [5] Fiorenza Sarzanini, Corriere della Sera 19/9; [6] Fiorenza Sarzanini, Corriere della Sera 18/9; [7] Giorgio Dell’Arti, La Gazzetta dello Sport 21/6; Fiorenza Sarzanini, Corriere della Sera, 21/6; [8] Fiorenza Sarzanini, Corriere della Sera 21/6; [9] Giusi Fasano, Corriere della Sera 21/6; [10] Carlo Bonini, la Repubblica 21/6; [11] Luca Rocca, Il Tempo 18/6; [12] Massimo Sandal, Wired 18/6 [13] Carlo Federico Grosso, La Stampa 21/6.