Filippo Fiorini, La Stampa 21/6/2014, 21 giugno 2014
DEBITO E RIVOLTE SOCIALI IL MODELLO KIRCHNER ADESSO RISCHIA IL DEFAULT
«Lo so che ci odiate - diceva ai passanti l’uomo col cappotto da marxista, avvolgendo di fiato il megafono, nell’aria fredda del giovedì - ma pensate che se voi vi lamentate di 7 mila pesos al mese, noi campiamo con 3 mila», uno stipendio che equivale a 194 euro o l’affitto di un appartamento in periferia. Disoccupati, operai e sanculotti indigeni delle baraccopoli, accampavano su un’area di 4 isolati attorno al Congresso, riunito in gran fretta per decidere il da farsi in merito la delibera del tribunale americano che ha dato 10 giorni di tempo all’Argentina per risarcire i creditori della crisi del 2001.
Poco distante, nella sala stampa della Camera, il capo dei ministri, Jorge Capitanich, stava dicendo: «Ci siamo trovati tutti d’accordo nel condannare l’atteggiamento da avvoltoio degli hedge fund, e considerare la sentenza lesiva della nostra sovranità». Una frase forse incomprensibile per chi stava fuori a contestarlo, ma che preparava il terreno a quello che avrebbe poi ribadito in modo più chiaro la presidente Cristina Kirchner ieri, citando lo scomparso marito ed ex presidente Nestor: «Pagheremo i nostri debiti, ma non uccideteci, perché i morti non pagano».
Davanti a lei, una moltitudine di sbandieratori inneggiava al «processo di cambiamento» di cui in parte è stato protagonista il suo governo, ma per cui la strategia di posticipare gli impegni al futuro è durata solo fino al giorno in cui il futuro è diventato inderogabile. Adesso, la Casa Rosada prende tempo, tende la mano ai creditori con condizioni che per loro sono sconvenienti e quando questi storcono il naso, li accusa di malafede. Intanto, però, si avvicina quel 30 giugno in cui scadranno le cedole di un buon numero di titoli argentini in dollari. Il momento in cui i fondi querelanti sperano di poter essere compensati, pignorandone il pagamento.
A queste condizioni, per Buenos Aires non c’è che la scelta tra la bancarotta e la resa, uno scenario quest’ultimo a cui si spera punteranno sia i giudici, che le parti in causa, perché di mezzo c’è il rischio di uno sfaldamento sociale simile a quello di 13 anni fa, un film che nessuno vuole rivedere. A pochi isolati dagli indios che bivaccavano coi fuochi di pallet davanti al parlamento, infatti, stavano nelle stesse ore altrettanti manifestanti, molto lontani da loro per ceto, ma in fondo a bordo della stessa barca nazionale che oggi affronta la tormenta. I mocassini e i gilet di quest’altra protesta svelano l’appartenenza dei suoi partecipanti a quel ceto medio che un tempo faceva, insieme ai poveri, il grosso dell’elettorato di Cristina.
Costoro non rischiano la fame, ma in caso di default sono quelli più esposti alla chiusura delle banche che prospetterebbe una nuova insolvenza. Nel 2001, dormivano sotto i portici in giacca e cravatta, perché non potevano permettersi i soldi dell’autobus per andare e tornare dal lavoro e avevano organizzato monete fittizie che sostituissero il peso scomparso, ma poi finirono per cavarsi le scarpe e batterne i tacchi sui bancomat spenti da giorni, mentre la polizia a cavallo sgombrava il viale.
Ora hanno deciso di muoversi per tempo. Sono scesi in strada più volte nelle marce delle casseruole dette cacerolazos, in cui negli ultimi anni hanno protestato contro la corruzione e contro il divieto di comprare dollari, in cerca di un risparmio solido contro una moneta volatile. Ieri si sono presentati coi cartelli in un numero che nemmeno loro si aspettavano, per appoggiare un magistrato stranamente sollevato dall’incarico, proprio quando aveva iniziato una piccola Mani Pulite contro il governo.
Diceva bene il capo popolo che parlava al freddo fuori dal congresso: il ceto medio odia i poverissimi, che vede come profittatori. E odia anche i devoti militanti del kirchnerismo, che considerano irretiti da un potere campione di doppiezza: capace di un discorso socialista nei comizi, ma di un arricchimento indecoroso dietro le quinte. Gli asti, la povertà e gli errori del passato, non aiutano questo Paese in difficoltà.
Filippo Fiorini, La Stampa 21/6/2014