Massimo Fini, Il Fatto Quotidiano 21/6/2014, 21 giugno 2014
GUERRA IN IRAQ: TRAPPOLA PER L’OCCIDENTE
Mentre i giornali italiani si estenuano sulle bizze dell’invido Robledo, sui tweet di Renzi e perfino su Berlusconi, in Medio Oriente, con l’avanzata irresistibile delle forze dell’Isis (Stato islamico dell’Iraq e del Levante) sta accadendo qualcosa di decisivo per il nostro futuro.
Per capire cosa sta succedendo in Iraq bisogna fare un lungo passo indietro. L’Iraq, come Stato, è una creazione cervellotica degli inglesi che nel 1930 misero insieme tre comunità, curdi, sunniti, sciiti, che nulla avevano a spartire fra di loro. La finzione tenne finché le potenze coloniali poterono tenere in stato di sudditanza le popolazioni mediorientali e arabe. Cambiò quando questi Stati conquistarono una vera indipendenza. Nel 1979 andò al potere in Iraq Saddam Hussein. Solo un dittatore poteva tenere insieme, con metodi brutali, quelle tre comunità così ostili fra loro. Nel 1980 Saddam attaccò l’Iran convinto che la cacciata dello Scià e l’avvento di Khomeini lo avessero indebolito. Per cinque anni le Potenze si limitarono a fornire armi a entrambi i contendenti perché potessero ammazzarsi meglio. Ma nel 1985 quando gli iraniani stavano per prendere Bassora, intervennero gli Stati Uniti e rimpinzarono Saddam di armi, comprese quelle di “distruzione di massa”. La guerra Iraq-Iran finì nel 1988. Allora Saddam carico di armi le rovesciò sul Kuwait, altra invenzione, nel 1960, questa volta americana, per gli interessi petroliferi Usa. E fu la prima guerra del Golfo. Le truppe del generale Schwarzkopf attraversarono il deserto a velocità da autostrada, ma dopo aver fatto, con i bombardamenti sulle città, 160 mila morti civili, fra cui 32.195 bambini, si fermarono sorprendentemente a 50 chilometri da Bagdad, lasciando in sella Saddam. Perché Saddam serviva in funzione antiraniana e anticurda (gli Usa hanno sempre temuto che l’indipendentismo curdo-iracheno innescasse quello in Turchia, la loro grande alleata nella regione).
Nel 2003 gli americani invasero l’Iraq e in seguito se ne andarono lasciandosi alle spalle 650 mila morti, un governo fantoccio, quello di Al Maliki, un esercito da loro addestrato al costo di 25 miliardi di dollari e una pseudo-democrazia che consegnava di fatto metà dell’Iraq all’Iran, perché gli sciiti iracheni (il 62% della popolazione) sono fratelli siamesi di quelli iraniani. Ma i sunniti, che con Saddam erano i padroni del Paese, non ci sono stati a subire il potere degli sciiti e ne è nata una sanguinosa guerra civile fra il disinteresse dell’Occidente perché ormai le major avevano il controllo del petrolio.
Ma gli occidentali sono caduti dalla padella nella brace perché nell’Isis non convergono solo i sunniti dell’Ovest dell’Iraq, ma guerriglieri siriani, somali, turkmeni e persino europei (600 francesi, 500 inglesi, 300 tedeschi e 250 belgi), formando una specie di internazionale del radicalismo islamico le cui ambizioni vanno ben al di là della conquista di buona parte dell’Iraq (con l’esclusione dell’area curda). Vogliono impiantare uno stato islamico ultraoltranzista e da qui fare base per una guerra totale all’Occidente. L’esercito fasullo di Al Maliki si è subito squagliato come neve al sole e molti dei suoi soldati passano con gli insorti (la stessa cosa succederebbe in Afghanistan se la Nato lasciasse veramente quel Paese), gli americani non sono in grado, materialmente e moralmente, di mandare truppe sul terreno ed ecco perché devono contare sugli interessi convergenti con l’arcinemico Iran, uno dei Paesi dell’“Asse del Male” e sugli odiati pasdaran, gli unici capaci di combattere, avendone pari determinazione e coraggio, gli jihadisti internazionali.
Massimo Fini, Il Fatto Quotidiano 21/6/2014