Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  giugno 21 Sabato calendario

UTILITY IN CREDITO PER 7,4 MILIARDI CON GLI ENTI AZIONISTI


Le partecipate degli enti locali sono una fetta consistente, ma fragile dell’economia pubblica nazionale. I problemi che attanagliano il sistema delle utility emergono con forza da un’indagine di R&S-Mediobanca su 67 società partecipate da 115 tra Comuni, Province e Regioni, con un totale di quasi 32 miliardi di ricavi e di 132mila dipendenti. L’aggregato rappresenta il 50% del settore ed è formato anche da importanti aziende quotate.
L’insieme di queste società ha realizzato 3,3 miliardi di profitti tra il 2006 e il 2012. Ma non è tutto oro quel che luccica. All’utile netto cumulato in questo arco di tempo dalle multiutility dell’energia (+4,1 miliardi) fanno riscontro le perdite delle aziende del trasporto pubblico locale (-1,4 miliardi) e delle aziende di igiene ambientale (-335 milioni). Per un’A2a, un’Acea e una Hera che nei sette anni esaminati scoppiano di profitti (rispettivamente, 1,1 miliardi, 701 milioni e 693 milioni), abbiamo un’Atac, la società dei trasporti del Comune di Roma, che perde oltre un miliardo e la milanese Asam e la napoletana Ctp che perdono nell’ordine 312 e 210 milioni.
La situazione è più critica a livello patrimonale. Dal 2006, i debiti finanziari sono cresciuti del 66%, arrivando al 130% del patrimonio netto. Il rapporto debt/equity è precipitato in media al 207% per le società di igiene ambientale e si è mantenuto intorno al 200% per le società domiciliate al Centro e al Sud. A livello di singole aziende, i debiti in rapporto al patrimonio netto sono pari a venti volte per la veronese Cav, a quasi 17 volte per le Acque Veronesi, a sei volte per la napoletana Asia, a cinque volte per la palermitana Ast (nata dalle ceneri della fallita Amia), a quattro volte per la perugina Gesenu, a tre volte e mezzo per la nuorese Abbanoa e per l’Acquedotto lucano e a oltre tre volte per la Metropolitana Milanese.
Peraltro le imprese di trasporto pubblico locale e di igiene ambientale assorbono la totalità dei trasferimenti pubblici: 4,7 miliardi, più 248 milioni di perdite solo nel 2012; e pagano in proporzione molte imposte e pochissimi dividendi. Il loro costo complessivo per le casse pubbliche è pari a 4,8 miliardi: una tassa occulta di 80 euro per cittadino.
Non solo: le società che sono andate bene a livello economico, sono invece andate male a livello azionario. Nel 2003-2013, la loro performance borsistica complessiva è stata inferiore di oltre 14 punti a quella delle imprese industriali (70% contro 84%) e il loro rendimento rispetto al prezzo di collocamento è stato quasi sempre negativo: -56% per A2a e Iren, -46% per Acsm-Agam e -7% per Acea. Solo gli azionisti di Hera hanno avuto un guadagno: +36 per cento. Il loro rendimento totale è stato mediamente inferiore a quello dei titoli di Stato. La Borsa si è rivelato un buon affare per i Comuni azionisti, che nel medesimo lasso di tempo hanno incassato circa 2,4 miliardi di dividendi, contro gli appena 120 milioni sborsati per aumenti di capitale.
Insomma, le società che hanno conti in regola sono costrette a svilupparsi con investimenti e processi di aggregazione a debito, mentre quelle che hanno bilanci risicati o chiudono in deficit sono costrette ad indebitarsi, perché l’azionista pubblico, sempre più a corto di risorse finanziarie, versa in ritardo il corrispettivo dei contratti di servizio.
C’è poi il rovescio della medaglia. Se è vero che molte di queste società sono mal gestite e hanno personale in eccesso, soprattutto nel Centro-Sud, è altresì vero che l’intero aggregato è creditore di 7,4 miliardi e debitore di 5,9 miliardi nei confronti della controparte pubblica (pari a un credito netto di circa 1,6 miliardi). Ebbene, se questo ammontare di crediti non fosse onorato, parecchie aziende potrebbero essere a rischio di fallimento: nel qual caso le amministrazioni pubbliche risponderebbero dell’eventuale dissesto senza avere più alcuna possibilità di recuperare il debito. A pagare il conto finale sarebbe il contribuente: considerando i 4,8 miliardi di trasferimenti netti già effettuati nel 2012, i 7,4 miliardi ancora da versare, i 3,3 miliardi già versati per investimenti, meno i 5,9 miliardi di indebitamento da rimborsare, in capo ad ogni italiano grava, per le 67 società del campione, un impegno di circa 160 euro.
E c’è infine l’abbuffata delle nomine. I 115 enti azionisti hanno affidato 4.600 incarichi solo nel 2012, di cui 2.300 in società e altri 2.300 in enti, fondazioni e consorzi.

Giuseppe Oddo, Il Sole 24 Ore 21/6/2014