Roberto Bongiorni, Il Sole 24 Ore 21/6/2014, 21 giugno 2014
PETROLIO, UN RIALZO SENZA STRAPPI
La guerra nel turbolento Iraq, il secondo produttore di petrolio dell’Opec. La Libia che, a un anno dal blocco dei terminali, esporta ancora un quarto rispetto ai volumi di un anno fa. L’Iran ancora sotto il giogo delle sanzioni, almeno ufficialmente, con le esportazioni mutilate. Poche volte il mercato del petrolio è stato teatro di tante crisi geopolitiche, e di così grave portata. A prima vista ci sarebbero i presupposti per vedere le quotazioni del barile volare su ben altri valori. L’atteso - e temuto - balzo dei contratti futures non è tuttavia avvenuto.
In uno scenario complesso come l’attuale la spiegazione è da imputare a un pluralità di fattori. Un rialzo, comunque, c’è stato. «Negli ultimi 10 giorni i prezzi del petrolio hanno accusato un deciso aumento, dell’ordine di otto dollari per il Brent, e non è affatto poco considerando i valori da cui sono partiti», spiega al Sole 24 Ore Leonidas Drollas, uno dei più noti analisti europei, veterano dei mercati petroliferi. Certo chi, speculando al rialzo, scommetteva sul petrolio a 130-140 dollari è stato deluso. Ma l’attuale livello dei prezzi, accolto con favore da diversi Paesi produttori, rischia di essere poco sostenibile sul lungo termine, per le economie ancora vulnerabili di molti Paesi consumatori.
Se le fiamme che hanno avvolto il nord dell’Iraq non sono divampate sui mercati è semplice. «La produzione irachena - spiega Drollas - è quasi tutta concentrata nel sud del Paese. Tant’è che è rimasta finora invariata rispetto ai livelli precedenti l’offensiva degli estremisti islamici. In secondo luogo l’Arabia Saudita dispone di una capacità di riserva superiore ai due milioni di barili al giorno (mbg). Infine, per quanto questo fattore eserciti minor peso, la crescente produzione degli Stati Uniti, grazie alla rivoluzione del tight oil, ha svolto il suo contributo».
La storia, dunque, si ripete. Ancora una volta, Riad potrebbe tornare a svolgere il ruolo di swing producer, cioè aprire i suoi rubinetti e compensare le interruzioni dell’offerta in altri Paesi. «In aprile e maggio i sauditi hanno estratto 9,7 mbg. Un volume molto alto, ma se ce ne fosse bisogno potrebbero attingere alla loro capacità di riserva in tempi rapidi. Hanno le infrastrutture e la capacità per farlo. Bisogna vedere se vogliono farlo. Se andasse in fiamme l’Iraq meridionale sarebbe necessario. Ma immettere adesso sui mercati ulteriori quantitativi per poi assistere impotenti a una caduta dei prezzi non è una manovra usuale per i sauditi», continua Drollas.
Anche perché vedere i jihadisti impadronirsi dei grandi giacimenti del sud è altamente improbabile. L’Iraq centro meridionale è una zona a grande maggioranza sciita controllata capillarmente dalle forze del Governo. In maggio, quando l’oleodotto Kirkuk Cehyan, che collega i pozzi del nord dell’Iraq alla Turchia, era già fermo da mesi a causa di un attentato, l’ex regno di Saddam ha comunque prodotto 3,3 mb, vicino ai massimi da oltre vent’anni. Senza contare che l’embargo sulle esportazioni dall’Iran si è un po’ ammorbidito. Teheran ora vende all’estero circa 1,4 mbg. Nei momenti più critici era scesa sotto il milione.
Infine il tight oil. Questo greggio non convenzionale, estratto da rocce nel sottosuolo mediante la fatturazione idraulica, ha rivoluzionato l’industria energetica degli Stati Uniti, ridisegnando la loro geopolitica mondiale e allontanandoli in parte dal Medio Oriente. Lo scorso mese la produzione complessiva americana ha toccato un nuovo picco a 11 mbg (inclusi i condensati), il massimo da 25 anni. Un quantitativo che consente al maggior consumatore di petrolio del mondo di esser meno precipitoso nel gestire la complessa crisi irachena. Washington sa che Riad entrerà in gioco, se necessario, con il suo petrolio. Le relazioni tra i due Paesi sono decisamente migliorate rispetto allo scorso autunno. I sauditi in contraccambio chiederanno un atteggiamento più severo da parte di Washington nei confronti di Teheran, potenza sciita e maggiore rivale di Riad, potenza sunnita, nella regione del Golfo. L’Iraq potrebbe diventare l’ultima frontiera di questo conflitto interconfessionale internazionale. Starà agli strateghi della Casa Bianca destreggiarsi in un gioco geopolitico sempre più complesso.
Roberto Bongiorni, Il Sole 24 Ore 21/6/2014