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 2014  giugno 21 Sabato calendario

LA CRISI IRACHENA E L’ECO DEL 2003


Ma siamo nel 2014 o nel 2003? Provo un doloroso brivido di déjà vua sentire gli appelli a intervenire militarmente in Iraq, mentre il presidente Obama stesso, sbeffeggiato per la sua debolezza, starebbe considerando, a quanto si dice, attacchi aerei via drone in quel Paese.
L’invasione dell’Iraq del 2003 dovrebbe servirci da monito: la forza militare a volte trasforma un problema reale in qualcosa di peggio. Quella guerra costò 4.000 vite di soldati americani e (secondo uno studio pubblicato su una rivista americana che usa il metodo della revisione tra pari) mezzo milione di vittime tra gli iracheni. Linda Bilmes, esperta di finanze pubbliche dell’università di Harvard, mi dice che la sua ultima stima sul costo complessivo della guerra in Iraq per gli Stati Uniti è di 4.000 miliardi di dollari.
Stiamo parlando di una tassa di 35.000 dollari a carico della famiglia americana media. Quattromila miliardi di dollari sarebbero stati sufficienti per assicurare un posto all’asilo a tutti i bambini americani, per fornire cure a quasi tutte le persone affette da Hiv nel mondo e per garantire a tutti i bambini del mondo di poter andare a scuola (per i prossimi 83 anni). Invece abbiamo finanziato una guerra futile che è stata come un nastro di Möbius che ci ha riportati a un’eco del punto di partenza.
Avremmo potuto imparare un po’ di umiltà. Sì, la soluzione militare è pratica e spesso utile. Ma nelle relazioni internazionali c’è una lezione di fondo che è assai frustrante: esistono più problemi che soluzioni. I Governi, come i medici, dovrebbero tener conto del principio «Primo, non fare danni».
Eppure Paul Bremer, l’ex inviato degli Usa in Iraq, invoca raid aerei e addirittura il dispiegamento di truppe sul terreno. E anche gli editorialisti del Wall Street Journal chiedono l’intervento militare.
Lo chiede anche, forse più a sorpresa, la senatrice democratica della California Dianne Feinstein, presidente della commissione sui servizi di intelligence della camera alta. Secondo il quotidiano di Washington The Hill avrebbe detto: «Considero estremamente importante intraprendere subito azioni dirette contro l’Isil (L’Isil, Stato islamico dell’Iraq e del Levante, è il gruppo combattente sunnita che sta dilagando in tutto l’Iraq settentrionale)».
Tra i falchi, la presenza più scontata è quella di Dick Cheney, che in un editoriale sul Wall Street Journal scritto insieme alla figlia Liz non intacca il suo primato, essere quasi sistematicamente dalla parte del torto. Dal vicepresidente che da giovane chiese e ottenne ogni rinvio possibile e immaginabile della leva per evitare il Vietnam, che affermò «con assoluta certezza» nel 2002 che Saddam stava fabbricando armi atomiche e che nel 2005 insisteva che la guerriglia irachena era «agonizzante », arriva ora una bordata contro il presidente Obama, colpevole di non mettere fine a questa «agonia» interminabile.
L’Iraq ha richiesto formalmente l’intervento degli Stati Uniti, e il mio timore è di finire inavvertitamente risucchiati in una guerra civile, un’eco di quello che ci successe in Libano dal 1982 al 1984 o in Somalia dal 1992 al 1994. Non intervenire in questo caso è una scelta sbagliata, ma intervenire è ancora peggio.
Dobbiamo riconoscere che i falchi hanno ragione, che l’Iraq rappresenta un serio problema. Ma l’intervento militare Usa è davvero la risposta migliore in questo momento? No, nel modo più assoluto.
Ricordiamoci che l’invasione dell’Isil è opera di una forza minuscola, composta forse da 4.000 combattenti, e che l’Iraq ha un esercito cinquanta volte più nutrito. Il Governo iracheno, guidato dal primo ministro sciita Nuri al-Maliki, è in grado di sconfiggere i guerriglieri, ma il primo, essenziale passo che al-Maliki (o chi lo sostituirà) dovrà compiere è tendere la mano a sunniti e curdi e lavorare con loro, invece di emarginarli.
Sulle pagine del New York Times Alissa Rubin e Rod Nordland hanno raccontato, questa settimana, che i leader sunniti e quelli curdi si sono incontrati con al-Maliki e che i primi di fatto hanno proposto un esercito sunnita per sconfiggere i terroristi. Sarebbe stato il modo perfetto per coltivare l’unità: schierare i sunniti moderati per schiacciare i sunniti estremisti, spegnendo l’incendio delle tensioni settarie. Invece al-Maliki ha respinto la proposta.
In Iraq sono tanti, tra i sunniti, a non amare l’estremismo islamista, ma hanno imparato e disprezzare e diffidare di al-Maliki ancora più che della guerriglia. La strada per uscire del groviglio iracheno è un Governo che condivida il potere con sunniti e curdi, accetti la decentralizzazione e dia più potere alle tribù sunnite moderate.
Se avverrà tutto questo, potrebbe essere ragionevole, per gli Stati Uniti, sostenere un Governo iracheno unito autorizzando attacchi aerei contro i guerriglieri estremisti. Altrimenti diventeremmo semplicemente complici dell’intransigenza di al-Maliki e ci schiereremmo dalla parte di una fazione in una guerra civile. Come ha detto il generale David Petraeus in una conferenza a Londra: «Gli Stati Uniti non possono essere l’aeronautica delle milizie sciite».
Sfortunatamente sembra che al-Maliki sia intenzionato a raddoppiare la posta, attizzando la rabbia della sua base sciita invece di costruire un fronte comune. Il Governo iracheno dovrebbe rilasciare prigionieri sunniti come gesto di buona volontà. Invece i prigionieri vengono giustiziati dalla polizia.
La forza militare può essere uno strumento efficace e indispensabile, come abbiamo visto in Kosovo e con le zone di interdizione aerea sopra il Kurdistan. Ma l’insegnamento della guerra irachena, costata 4.000 miliardi di dollari, è che se è vero che la nostra capacità militare è straordinaria, esaltante perfino, è vero anche che non può rappresentare la soluzione a qualsiasi problema.
© 2-014 New York Times News Service (Traduzione di Fabio Galimberti)

Nicholas d. Kristof, la Repubblica 21/6/2014