Carlo Federico Grosso, La Stampa 21/6/2014, 21 giugno 2014
MA SE NON C’È LA CONFESSIONE SONO SOLO INDIZI
Nel suo interrogatorio davanti al Gip dell’altro ieri, Massimo Bossetti ha negato disperatamente di essere l’omicida di Yara Gambirasio. «Non so spiegare perché il mio Dna sia finito sui leggings e sulle mutandine di quella bambina», ha dichiarato, «ma Yara non la conoscevo e non l’avevo mai vista». Eppure, quantomeno sul terreno della gravità degli indizi a carico, la prova scientifica sembra inchiodarlo.
Se nell’accertamento compiuto sulla sostanza organica trovata sugli indumenti della ragazzina non sono stati commessi errori, ed il Dna che è stato rilevato corrisponde (come pare certo) a quello dell’indagato, il passo compiuto dall’inchiesta è stato decisivo: agli atti del processo è stata acquisita la prova di una vicinanza fisica fra l’indagato e la vittima che difficilmente consentirà al primo di svincolarsi dalla stretta degli accusatori.
La coincidenza cromosomica costituisce elemento dotato di un coefficiente altissimo di attendibilità, e ad indebolire la sua efficacia probatoria non appaiono sufficienti, da soli, la testarda negazione di responsabilità da parte dell’indiziato (una sorta di assurdo «muro contro muro» con la Procura della Repubblica che lo accusa) o il disperato tentativo di sua madre di negare, in un’intervista, l’evidenza «scientifica» della paternità dell’indagato. Ben altro sarebbe necessario dimostrare per consentire a Massimo Bossetti di ribaltare il corso, prevedibile, della vicenda giudiziaria che l’ha coinvolto.
Cionondimeno, neppure si può affermare che il caso sia, ormai, definitivamente «risolto». Tutt’altro. Rimangono rilevanti vuoti di conoscenza che sarà indispensabile colmare per potere arrivare, alla fine del processo, ad una sentenza accettabile.
Come bene ha spiegato ieri il Procuratore di Bergamo, con l’utilizzazione di una sofisticata ed innovativa tecnica scientifica il suo ufficio è stato in grado di superare un quadro iniziale di totale buio investigativo, riuscendo pian piano a risalire alla persona del Bossetti quale soggetto fortissimamente indiziato. In questo momento una sola circostanza è stata, tuttavia, sicuramente accertata a suo carico: che egli è stato, fisicamente, vicino alla vittima. Ciò consente di affermare che contro di lui pende un indizio gravissimo, quasi insuperabile, di colpevolezza.
Manca tuttavia, a quel che consta, tutto il resto: la ricostruzione del contesto in cui il delitto è maturato, l’individuazione delle modalità dell’approccio dell’assassino alla persona offesa, l’accertamento di come la vittima è stata attirata nel luogo dove è stata aggredita, la ricostruzione della dinamica del fatto criminale, la ricostruzione dell’effettiva intenzione dell’assassino (chi ha ucciso la ragazzina voleva ucciderla fin dall’inizio, ha premeditato l’omicidio o aveva invece, originariamente, un’intenzione orientata in tutt’altra direzione? Quando ha cominciato a colpire, voleva uccidere o soltanto ferire? Quando ha abbandonato la vittima ferita, si è reso conto che essa sarebbe inevitabilmente morta di freddo o d’inedia ed ha accettato consapevolmente il rischio di tale decesso?).
Si tratta, si badi, di profili di grandissimo rilievo in un processo penale d’omicidio, che possono modificare profondamente la tipologia del delitto (omicidio premeditato, omicidio volontario in senso stretto, omicidio volontario caratterizzato dal solo dolo eventuale, omicidio preterintenzionale) e cambiare significativamente la dimensione della pena inflitta. Ma non solo. Sul terreno probatorio complessivo, la sola prova scientifica costituita dal riscontro del Dna del Bossetti sugli indumenti della vittima sarà davvero in grado di tenere fino in fondo davanti ad una Corte di Assise, formata in maggioranza da giudici popolari, o sarà necessario, per la procura della Repubblica, disporre di un più articolato compendio di riscontri oggettivi dell’impostazione accusatoria?
Nel caso di specie alcuni labili riscontri all’impostazione accusatoria sono, in realtà, emersi: la moglie del Bossetti non si è detta certa che il marito fosse a casa la sera della scomparsa di Yara, e non ha confermato pertanto il suo alibi; il fratello di Yara ha testimoniato che la sorella prima di scomparire gli aveva confidato di avere, da qualche tempo, paura di andare in palestra, in quanto aveva notato un individuo, con la barbetta, che la osservava con uno sguardo strano da una macchina di colore grigio chiaro; il cellulare dell’indagato, la sera della scomparsa della ragazza, era stato spento circa mezz’ora prima che essa uscisse dalla palestra (ma poteva essere scarico, come ha sostenuto l’indagato); la cella del cellulare aveva agganciato il luogo in cui si trovavano la palestra, e quindi Yara (ma la cella agganciava anche l’abitazione dell’indagato).
Ancora troppo poco, dunque, per essere assolutamente certi del risultato processuale. Nonostante la fortissima valenza indiziante del riscontro del Dna, se nel corso delle indagini, o nel processo, non dovessero emergere ulteriori apporti probatori, il processo che si profila avrà tutte le caratteristiche, e tutte le incertezze, del processo indiziario. A meno che dovesse sopravvenire - ma di ciò, fino a questo momento, non vi è la minima avvisaglia - una salvifica confessione liberatoria da parte dell’indagato.