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 2014  giugno 21 Sabato calendario

QUELLA FOLLE SERATA ROMANA IN CUI DALI’ CHIESE A DE CHIRICO: «QUANTI MILIONI GUADAGNI PIU’ DI ME?»

Cominciai prestissimo, a Genova, dove mio padre faceva parte di una società marittima. Scrissi un pezzettino, lo spedii al capo-ufficio pubblicità che in quel giorno festeggiava la nascita del dodicesimo maschio. Sarà di buon umore, pensavo, e lui magari si strappava i capelli. Però l’articolo non lo strappò. Allora non si diceva un “pezzo di costume”, come si dice ora, ma “un cane schiacciato”. Nessun redattore vero voleva occuparsi di cani schiacciati, metaforicamente o no (tranne questa ragazzina miope, con le gambe lunghe, una curiosità inesauribile).
Le brinate
Il Bertoldo nel suo editoriale adottò la formula “Irenebrinentrano”, “Irenebrindano”, “Irenebrinescono”. Longanesi ed io ne fummo profondamente lusingati (Irene Brin era uno pseudonimo inventato da Longanesi ndr). E citerò, vanitosamente, la sola tra le mie emule che brinuscì quasi subito. Era Elsa Morante.
Il
centro del mondo
Nell’autunno del 1951 ebbi un collasso, a Chartres. Mio marito mi ricondusse a Roma e rimasi a letto lunghe settimane. Per divertirmi, mi posava sulle lenzuola le varie lettere in arrivo: volevo organizzare un Festival di Moda? Una mostra di pittura moderna, a Bâton Rouge? Intervistare Graham Greene o Aldous Huxley, che progettavano un libro su Roma? Così, lentamente, attraverso la doppia nebbia delle mie delusioni e della mia solitudine, capii che Roma era diventata il centro del mondo. E valeva la pena di partecipare a quella esplosione.
Il
difficile Natale di Cartier-Bresson
Marie-Louise Bousquet, capo della redazione parigina di Harper’s Bazaar, aveva cominciato a inviarmi quei telegrammi lunghi, romantici, opulenti. «Irène, mon amour, tu verras bientôt arriver
Henri Cartier-Bresson, mon autre amour...». Marie-Louise è sempre stata una donna che parlò, scrisse, sognò e rise quasi unicamente d’amore: mi auguro lo abbia anche fatto, con altrettanta felicità e frequenza. Sviluppò comunque al massimo il fascino di una gamba difettosa, acquistandone un modo di camminare particolare a lei sola, un saltellío con soste,
un’ hésitation con giravolta, un cakewalk con
aggiunta di zapateado. Mi dicono fosse ottima nel charleston. (...)Feci del mio meglio per accontentare Marie-Louise trovando un petit amour de petit Noël italien. (...) Mi parve una giusta soluzione chiedere a donna Margherita Caetani il permesso di introdurre grossi cavi elettrici nella sua tenuta di Ninfa, per fotografare
le sue sette chiese semi-distrutte. La principessa rispose di sì, Cartier di no: troppo dannunziano. Trovai un Monsignore che ci avrebbe consentito di ritrarre la Messa in un convento di clausura, attraverso le grate. Cartier giudicò l’idea barocca, seicentesca. (...) Inseguendo l’immagine di un paese che forse aveva cessato di esistere, Eli ed Henri trascorsero il di-
cembre del 1951 tra Scanno e Matera. «Anche se mia moglie soffre molto il freddo, siamo felici, la gente ci offre ospitalità con meravigliosa gentilezza che bisogna far risalire ad epoche arcaiche... ».
Jean Genet innamorato
La visita di Jean Genet, a Roma, avrebbe dovuto essere misteriosa. O, almeno, così sperava l’amico che lo ospitava in casa propria. Ma no, il vecchio forzato, che accentuava per timidezza il passo pesante e il cranio nudo, fu adottato da Roma con entusiasmo, lo riconobbero tutti e lo lasciarono tranquillo, con poche eccezioni. (...) «Madame » mi dichiarò quando gli trasmisi l’invito della duchessa, «je regrette, no. Non amo ricordare il passato. E in questi giorni non posso assolutamente perdere un solo minuto. Sono innamorato quanto il Giovane Werther. Come Goethe, scopro la grandezza
di Roma e la gioia di vivere».
Povera
Ingrid
I miei rapporti con Ingrid Bergman cominciarono male. Aveva accettato dopo qualche difficoltà ad accogliermi con un fotografo di sua fiducia, tuttavia ebbi una risposta gelida dalla mia direttrice (...). Mi diede un’impressione di una estrema incertezza, anche se fisicamente si era maturata, ingrassando e probabilmente piangendo. «Studio l’italiano, credo che presto lo parlerò bene. Ma studio anche gli italiani e temo che li capirò sempre male. Ognuno di voi dà l’impressione di un’assoluta esperienza. Non solo gli adulti, non solo gli intellettuali. Tutti. La mia cuoca. I bambini. Gli sconosciuti. Avete l’aria di vivere da mille anni. Io non ho vissuto affatto».
Il dubbio di Dalí
Andammo per pranzo al ristorante
“Passetto” e Salvador sfoggiò le infinite risorse della sua cultura e del suo spirito. Aveva completamente dimenticato il suo bastoncino («Lo porto sempre, a Roma, e faccio finta di zoppicare, ai Romani piacciono gli zoppi») e anche i suoi baffi non davano fastidio. Di fronte a lui Gala era serena, con quella nobile faccia larga, magra, senz’ombre. «Credete», chiese Dalì posando improvvisamente il cucchiaio, «che Giorgio de Chirico abbia più milioni, o meno, di me?». Grave, insolubile dubbio. Decise di risolverlo telefonando subito a de Chirico e lo accompagnai al telefono. «Allô? Sono Salvador Dalì. Posso parlare col maestro?». Dall’altra estremità del filo rispose, inconfondibile e baritonale, la voce del maestro: «Oh, non, je suis à la campagne».