Paolo Berizzi, la Repubblica 21/6/2014, 21 giugno 2014
«MI HANNO DATO DEL MOSTRO MA NON VADO CON LE BAMBINE»
Eccolo il racconto di Bossetti. «Sono tranquillo e sereno. Adesso sono il mostro della porta accanto, ma ho la coscienza a posto. Verrà dimostrata la mia innocenza. Se fossi stato io ad ammazzare Yara, mi sarei già ucciso». Le 10.15 di venerdì. Infermeria del Gleno, il carcere di Bergamo. La stanza medica è in fondo al corridoio che parte dalla rotonda, come è chiamato lo snodo da cui si raggiungono le sezioni del penitenziario. Sono passate 24 ore dall’udienza di convalida del fermo del presunto killer di Brembate. Ancora piantonato nella sua cella, Bossetti si sottopone alla visita medica di routine. È la quinta da quando è dietro le sbarre.
L’ex Ignoto1 affronta un lungo colloquio con lo psicologo che fa parte dell’équipe coordinata da Franco Berté, dirigente medico del carcere di Bergamo. Prima di riportare il contenuto della conversazione con Bossetti, è opportuno sottolineare un dato clinico: cristallizzato in un referto, e per nulla secondario. L’uomo accusato di avere massacrato Yara Gambirasio e di averla «abbandonata agonizzante in un campo isolato dopo avere operato sevizie e agito con crudeltà », è descritto dai medici che lo seguono al Gleno con queste parole: una «persona equilibrata»; un detenuto in «stato integro», che gode di un «buon equilibrio psicofisico» e «presenta un sufficiente grado di contenimento». Questo è il Massimo Giuseppe Bossetti ingrandito dalla lente di psicologi e psichiatri. Che, con una visita specialistica, hanno voluto valutare le sue condizioni e il grado di «inserimento ambientale» in carcere.
«Chiaro». «Lineare». «Disarmante ». Viene riferito in questi termini, a “Repubblica”, l’atteggiamento del muratore quarantaquattrenne. «Non sono io il colpevole, e questa consapevolezza mi fa sentire a posto con la mia coscienza — ha spiegato Bossetti in infermeria — Sono qui dentro, in carcere. Ovvio che vorrei, anzi dovrei, non starci: perché non c’entro niente con l’omicidio di quella povera ragazzina. Ma sono sicuro che le indagini andranno avanti, e dimostreranno la mia innocenza».
È questo il punto di equilibrio del grande accusato? Possibile che tra le pieghe della sua mente non vi sia neanche un filo di smarrimento o di umana angoscia? «Se fossi stato io a fare una cosa del genere, mi sarei già ucciso», ha risposto Bossetti al medico che gli chiedeva come si sentisse dopo la vicenda che, colpevole o meno, lo ha travolto. Le parole del detenuto non hanno evidenziato «nessuna traccia di pulsioni autolesioniste», dice lo specialista. Bossetti — difeso
dall’avvocato Silvia Gazzetti — si sente innocente e lo dice con forza. Al punto che per un attimo si spinge a affermare: «Non voglio nemmeno pensare a un processo. Io non ho ucciso Yara, non l’ho mai incontrata né conosciuta: l’ho vista solo in tv».
Dichiarazioni, queste, già consegnate al gip durante l’udienza di giovedì. Udienza sul cui esito, ora, si interroga lo stesso accusato. «Se per loro sono io l’assassino perché non hanno convalidato il fermo?». In infermeria Bossetti ha offerto argomenti per spiegare il suo stato d’animo. Sempre in difesa. Del ritrovamento
del suo Dna aveva già detto di essere sorpreso e di non sapere come sia possibile che sia stato trovato sui leggins e sugli slip di Yara. Ora si spinge oltre. «È una delle tante stranezze di questa storia. La più grande. Ma sono sereno perché sono sicuro che la mia estraneità verrà presto a galla».
Agli psicologi interessa altro. Per esempio capire anche se, come e quanto l’impatto della macchina mediatica abbia influito negli ultimi giorni sui pensieri e i meccanismi cognitivi di Bossetti. Lui ha risposto così: «Adesso per tutti sono il mostro cattivo. Ma non è così e la verità verrà fuori. Non sono un criminale, non sono un maniaco, non sono uno che va dietro alle ragazzine. Chi mi conosce, i miei familiari, mia madre, mia sorella, i miei figli, ma anche i miei amici e i miei colleghi, sanno benissimo che non potrei mai commettere un crimine come questo». Basta questa consapevolezza esibita per tenersi su e non precipitare in uno stato d’ansia? «Se dentro di me non sapessi di essere innocente probabilmente adesso mi troverei in uno stato di depressione devastante. Mi sarei già ucciso. Trovo forza nel sapere che le cose non stanno come pensano i magistrati e le forze dell’ordine».
C’è un aspetto che ha colpito Bossetti. E lo ha ammesso lui stesso davanti ai medici. È lo spaccato collaterale di questa storiaccia che ha sconvolto la vita di due, anzi tre famiglie: prima i Gambirasio, poi i Guerinoni, adesso anche i familiari di Bossetti, a partire da sua sorella gemella Letizia Laura (ha scoperto assieme al fratello di non essere figlia di quello che credeva essere il suo padre naturale, Giovanni Bossetti). «Scoprire dai giornali e dalle televisioni (Bossetti ha la tv in cella, ndr) che il mio padre naturale è un altro, mi ha provocato un forte turbamento. È una cosa che elaborerò col tempo ma che, indipendentemente da come sono andare davvero le cose, non cambierà il mio rapporto e il mio sentimento di amore e di affetto per mia madre. So anche che i miei familiari continueranno a starmi vicino e a sostenere la mia innocenza».
Tra gli accertamenti clinici, i colloqui con lo psicologo sono considerati uno dei momenti più significativi per «l’adattamento del detenuto e la valutazione della sua situazione emotiva. Specie se appena arrivato e soprattutto se in condizione di isolamento ». Così ritengono il direttore del carcere Antonino Porcino e la responsabile dell’area trattamentale Anna Maioli. Lui, Bossetti, dopo il quinto giorno dietro le sbarre, si sente così: «Ho trovato umanità da parte di tutte le persone con le quali sono entrato in contatto. In carcere non mi sento trattato da mostro. Sono entrato con un’accusa, ma questo non significa che sono un assassino».