Carlo Bonini, la Repubblica 21/6/2014, 21 giugno 2014
«BOSSETTI SI FERI’ LOTTANDO CON YARA»
Con la forza della prova forense, della scienza del Dna, dello studio di compatibilità delle microtracce sulla scena del crimine — a cominciare dalle «significative polveri di calce» nei bronchi della vittima — la procura di Bergamo e gli investigatori che per tre anni hanno «indagato il buio» e «cercato di dare un nome al marziano che si era portato via Yara Gambirasio», riducono a una petizione di principio la professione di innocenza di Massimo Giuseppe Bossetti, il muratore di 44 anni accusato di esserne l’assassino. Inceneriscono la difesa pubblica che ne hanno fatto la madre e la sorella gemella. E poco importa che il movente (verosimilmente sessuale) sia ancora un punto interrogativo, esattamente come la circostanza, l’occasione, che ha fatto incrociare vittima e carnefice («È il lavoro che abbiamo davanti e che servirà a considerare chiuso un caso che ancora tale non è», dice il pm Laura Ruggeri). Perché «in questa storia — osservano con la certezza dell’indicativo il comandante del Ros dei carabinieri Mario Parente e, con lui, quello dello Sco della Polizia Raffaele Grassi — l’unica cosa che conta è che il Dna di Massimo Bossetti è identico a quello ritrovato sul corpo di
Yara. Un dato che chiude ogni discussione. Non fosse altro perché, per stessa ammissione dell’indagato, tra i due non esisteva alcuna consuetudine, alcuna relazione. Non si erano mai visti. E questo dà alla prova un significato univoco».
Né, a quanto pare, sarebbe utile coltivare il dubbio sulla fallibilità dell’esame che vuole appunto che quel Dna sia di Bossetti. Perché — dice Carlo Previderé, biologo dell’Istituto di medicina legale dell’Università di Pavia che quel Dna ha esaminato e di quel Dna è venuto a capo — la corrispondenza tra il profilo genetico di Bossetti e quello recuperato sul corpo di Yara è data da 21 marcatori Str autosomoci», quasi due volte quelli richiesti dai protocolli internazionali per accertare l’identità tra due profili genetici. «E in questo caso la possibilità di errore — aggiunge l’uomo di scienza — è nell’ordine di uno su 2 per 10 alla ventisettesima. Il che sta a dire che, statisticamente, solo un soggetto maschile su due miliardi di miliardi di miliardi condivide nella popolazione questi genotipi o caratteristiche genetiche ». Insomma, hai voglia a sostenere «non sono io».
E tuttavia conviene rimettere insieme le tessere di questo mosaico. Almeno così come documentati nell’ordinanza di custodia cautelare del gip Vin-
cenza Maccora e negli atti di indagine. Perché è nei dettagli che si misurerà il destino di Bossetti, la possibilità di una sua confessione, la decisione della Procura di andare o meno a un giudizio immediato («È una decisione prematura », osserva la pm), lo spazio per una difesa che, al momento, appare titanica.
LA TRACCIA MISTA
Il Dna che risulta “sovrapponibile” a quello di Bossetti viene recuperato dal Ris dei carabinieri sugli slip e i leggings indossati da Yara al momento della morte. È di «ottima qualità». E «si tratta — scrivono nella loro relazione tecnico- scientifica alla procura — di una traccia ematica, isolata in un’area attigua a uno dei margini degli indumenti recisi con un’arma da taglio». È escluso, dunque, che si tratti del frutto di «fugaci maneggiamenti — prosegue la relazione
— apparendo confortata l’evidenza che a produrre le tracce sia stato un fluido abbondantemente cellularizzato e non compatibile con altrettante sostanze poco ricche di Dna, come sudore, urina, lacrime, esiti di sfioramento». Epperò, quella traccia ematica è «mista». Contiene cioè il Dna di vittima e carnefice. «Perché — dice ora il pm Laura Ruggeri — è verosimile pensare che l’assassino, nel maneggiare uno strumento da punta e taglio, con una lama di almeno due centimetri di lunghezza e due millimetri di spessore e con una possibile copertura di titanio, si sia ferito».
Da quella macchia di sangue, vengono dunque separati il profilo genetico di Yara e quello dell’uomo che l’ha uccisa. È un esame che viene ripetuto quattro volte, in altrettanti laboratori (il Ris di Parma, l’Istituto di Medicina legale dell’Università Statale di Milano, il labora-
torio di Biotecnologia del San Raffaele di Milano, l’Istituto di medicina legale di Pavia). Con risultati che isolano un identico profilo biologico. Quello che risulterà di Bossetti. Senza dunque apparenti margini di errore in questo “processo di separazione”.
È vero — ammettono ora gli inquirenti — quell’esame di “estrazione e separazione” non è oggi ripetibile. Perché il materiale biologico che sarebbe necessario a replicarlo è andato esaurito proprio in quei primi e laboriosi accertamenti. E tuttavia — insistono — proprio la circostanza che sia stato ripetuto quattro volte dovrebbe mettere gli esami al riparo dalla verosimile battaglia di perizie che si accenderà in Corte
di Assise.
LE POLVERI E IL NICHEL
C’è un secondo e per certi versi altrettanto
robusto indizio forense che accusa Bossetti. L’autopsia sul corpo di Yara — documenta l’ordinanza di custodia — estrae dai suoi bronchi «polveri di calce che, del tutto verosimilmente, sono frutto della contaminazione dovuta, mentre è ancora in vita, alla sua permanenza in un ambiente saturo di tali sostanze, ovvero dal contatto con parti anatomiche (mani) o indumenti indossati da terzi e imbrattati da tali sostanze ». Ebbene, quel pomeriggio del 26 novembre 2010, per sua stessa ammissione, Bossetti transita nella zona in cui scompare Yara (fa fede la cella di Mapello che aggancia il suo cellulare alle 17.45 prima che resti spento nelle successive 14 ore) proprio mentre fa ritorno dal cantiere di Palazzago, dove ha lavorato con la calce tutto il giorno. Di più: gli esami scientifici su quelle polveri estratte dal cadavere di Yara le certificano incompatibili con altri luoghi, dove pure la ragazza avrebbe potuto respirarle: la sua abitazione, la palestra, la piscina, lo sterrato attiguo al campo di Chignolo d’Isola dove sarà ritrovata senza vita. E ancora: sulle scarpe di Yara e sui suoi indumenti ci sono anche «piccole sfere di ferro-cromo-nichel». Anche queste «proprie di attività legate al mondo dell’edilizia». «Al lavoro di
muratore di Bossetti».
IL SIGNORE IN MACCHINA
C’è infine la parola di un bambino, il fratello minore di Yara. Sentito il 19 luglio del 2012, racconta: «Mia sorella aveva paura di un signore in macchina che la guardava male quando andava in palestra. Mi disse che era cicciottello, aveva la barbetta appena tagliata e una macchina grigia e lunga». Già, grigia e lunga come la Volvo V40 di Bossetti. Con il “pizzetto” che, ancora Bossetti, portava fino a qualche mese fa, ossigenato come le sue sopracciglia. Per quella cura maniacale del corpo che significativamente nascondeva alla famiglia, che ha tentato di ridimensionare nel suo interrogatorio di garanzia e che pure coltivava nel centro benessere “Oltreoceano”, a poche centinaia di metri da casa Gambirasio. Dove, per la sua assiduità, lo consideravano «un clientone » e dove, per 11 euro, due volte a settimana si sottoponeva a sedute di lampade “total body”. Lampi di un profilo “narcisista” che male si incastrano con l’immagine del muratore padre di tre figli che non ha tempo da perdere oltre che spaccarsi la schiena in un cantiere.