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 2014  giugno 20 Venerdì calendario

«QUELLO DEL GIORNALISTA È UN MESTIERE DI POCO AVVENIRE E SCARSA MORALITÀ»

[Intervista a Piero Ottone] –

È il decano del giornalismo italiano. È stato corrispondente dalle capitali di mezza Europa. Ha diretto il Secolo XIX e il Corriere della Sera. Ha vissuto al fianco di Mario Formenton gli anni d’oro della Mondadori ed è firma del gruppo l’Espresso. Piero Ottone, 90 anni tra qualche giorno, mi accoglie nella sua casa di Camogli: quadri di battaglie navali alle pareti e una terrazza a strapiombo sul mare. Ha da poco dato alle stampe un libro, Novanta (Longanesi), che è un mix colorito di ricordi, precetti e aneddoti messi insieme con lo scopo di raccontare la natura più vera degli italiani. Ci sono le avventure di Ottone inviato a Londra, a Bonn e a Mosca. I rapporti altalenanti con i politici della Prima Repubblica e con i boiardi di Stato. C’è persino l’ammissione che da ragazzo vedeva in Mussolini un super uomo. Chiedo: «Nei rossissimi Anni Settanta, quando dirigeva il Corriere, sarebbe stato possibile confessare questa debolezza giovanile?». Replica: «Probabilmente non l’avrei fatto per evitare guai. Dopodiché Mussolini guadagna in statura se confrontato con il cialtroncello che ha governato l’ultimo ventennio italiano». Il riferimento è a Berlusconi, presentissimo nel volume con ricordi anche inusuali: è l’imprenditore edile che si presenta a via Solferino per protestare contro gli aerei di Linate che potrebbero disturbare il sonno di chi andrà a vivere a Milano 2; ed è il predatore dell’editoria con lampi di tenerezza: «Un giorno, a Segrate, mi raccontò che aveva dormito poco per cantare la ninna nanna alla figlia che non prendeva sonno».
Per Ottone, il giornalista è un osservatore che non deve cercare di influire sugli eventi. E la sua osservazione è spietata: «Aveva ragione il filosofo Oswald Spengler: la civiltà occidentale, come è accaduto ad altre civiltà, ormai è finita. Siamo decadenti ed è inutile cercare una via di salvezza. In Italia poi c’è un’aggravante. Non abbiamo mai avuto una classe dirigente degna di questo nome». Dice di aver ribadito il concetto anche a un giornalista della Rai che è andato a trovarlo in mattinata: «Credo di averlo deluso. Mi faceva domande politiche, ma io di politica italiana non ne so tantissimo».
Non ne saprà molto, ma la osserva da più di cinquant’anni. Le piace Renzi?
«È un bravo comunicatore. Ma come tutti i politici italiani mi pare vuoto di contenuti. Non vorrei arrivare a scomodare Fedro…».
Fedro?
«O quanta species, inquit, cerebrum non habet!».
Tradotto?
«Molto onore e molta gloria, ma non tanta intelligenza. Renzi è un tipico esempio di populismo contemporaneo. Manca il riferimento a un sistema di valori. Resta la ricerca dei voti. Il premier è un bell’esponente di questa nuova fase di decadenza politica. Anche Obama e Blair fanno parte della stessa schiera».
È in ottima compagnia.
«I politici con un contenuto politico, sociale e intellettuale sono un’altra cosa».
Chi sono in Italia?
«De Gasperi, Moro, Fanfani… De Gasperi più degli altri: aveva senso della dignità nazionale e senso religioso».
Nel suo ultimo libro lei racconta che quando era direttore del Corriere commissionò a Indro Montanelli un ritratto parallelo del leader Dc Amintore Fanfani e dell’ex boss di Eni e dominus di Montedison, Eugenio Cefis.
«Incaricai Montanelli perché era il migliore, ma lui si rifiutò. Su Indro ne posso raccontare molte, anche se rischio di profanare un mito».
Lei scrive, non senza malizia, che Montanelli sperava di avere da Cefis un finanziamento per fondare un giornale.
«Non c’è malizia. Indro voleva dirigere il Corriere, ma non riuscendoci cominciò a pensare di fondare un suo quotidiano. Cefis era un potenziale finanziatore ed era meglio evitare di entrare in rotta di collisione».
Non ne dà esattamente l’immagine del giornalista “cane da guardia”.
«Indro era brillante. Scriveva come nessun altro da cento anni a questa parte. Ed era onesto. Ma come giornalista/guardiano aveva dei limiti. Fondato il Giornale, un giorno mi disse: “Berlusconi è l’editore ideale. Gli ho appaltato le pagine dello spettacolo. Ma a parte questo mi lascia piena libertà”. Un direttore che appalta, insomma…».
Lei non lo avrebbe fatto?
«No. Berlusconi quelle pagine non è che le volesse perché era un semplice appassionato».
Montanelli ha lasciato il Giornale e ha fondato La voce, proprio in contrasto con il Berlusconi che scendeva in campo, nel ’94.
«Era una linea editoriale interessante per il pubblico. Luigi Barzini diceva che non si deve dare la direzione di un giornale a qualcuno che non è stato almeno un anno a Londra. Chi è stato all’estero sa che esiste una possibilità di purezza giornalistica. Una purezza di cui Indro non aveva un’idea chiara. Questo è un problema diffuso».
Colpa degli editori, che spesso hanno un conflitto di interessi con l’informazione, della politica invadente o dei giornalisti che resistono poco alle pressioni?
«In Italia mi sembra che manchi una teoria giornalistica. Quando parliamo di obiettività, il mio amico Eugenio Scalfari nega che esista. Gli inglesi e gli americani, invece, credono nell’obiettività dei giornali. Le Monde di Hubert Beuve-Méry, in Francia, aveva una purezza che i nostri giornali non hanno mai avuto».
Che consiglio darebbe a un ragazzo che vuole fare il cronista?
«Gli direi prima di tutto che ormai è un mestiere di poco avvenire e di scarsa moralità. E poi gli consiglierei di andare un po’ a Londra e a New York per respirare l’aria di quel giornalismo lì».
Il giornalismo vero “cane da guardia”, appunto?
«I giornali, nel loro periodo aureo, sono stati qualcosa di più. Erano essi stessi delle istituzioni. Pilastri della vita pubblica».
In Italia…
«L’unico quotidiano/istituzione è stato Il Corriere della Sera di Luigi Albertini».
Tra il 1900 e il 1925. Lei, invece, ha diretto il Corriere tra il ’72 e il ’77.
«Nel ’77 non avevo idea che sarebbe arrivata la P2. Il mio angelo custode mi disse: “Vattene, poi capirai perché”. La mia carriera è tutta un susseguirsi di fughe alla ricerca della libertà».
La prima fuga?
«Nel 1953. Quando fecero fuori Massimo Caputo, il direttore della Gazzetta del Popolo che mi aveva assunto, me ne andai. Pensai pure di cambiare mestiere».
Qual è l’articolo che ha scritto di cui va più fiero?
«Mi identifico più nella gestione dei giornali che nella scrittura degli articoli. Ma sono abbastanza contento dei miei reportage non ideologici dall’Unione Sovietica negli Anni Cinquanta. E poi, un po’ vanagloriosamente, mi identifico nell’ultimo articolo: in questo momento è un commento sul fatto che la creazione degli Stati Uniti d’Europa è impossibile e sarebbe quasi dannosa».
Da quel che scrive in Novanta non sembra gradire molto la pubblicazione delle intercettazioni e delle carte processuali.
«Soprattutto di quelle che non hanno a che fare con i reati. Ma in quel caso, più che i giornali sono i magistrati a far cose inconcepibili. Da un magistrato mi aspetto correttezza e integrità».
Da un giornalista no?
«No. Un giornalista che ottiene quelle carte le pubblica, anche perché è in competizione con altri quotidiani e Tg».
A cena col nemico?
«Sono talmente tollerante… Forse Enzo Bettiza, che ha scritto su di me un po’ di insulti gratuiti».
Ha un clan di amici?
«Claudio Rinaldi, Carlo Caracciolo… E poi i velisti».
Lei è molto orgoglioso delle sue capacità da skipper.
«Non ho mai fatto salire a bordo della mia barca un professionista. Sono sempre stato io responsabile per tutti».
La veleggiata della vita?
«Quella da Genova alle Isole Azzorre».
Qual è la scelta che le ha cambiato la vita?
«Sposarmi. Nel dicembre 1956. Ho conosciuto Hanne mentre ero corrispondente da Mosca».
Che cosa guarda in tv?
«Lilli Gruber, che migliora ogni giorno. E concerti di musica classica».
Il pezzo musicale preferito?
«Il Concerto brandeburghese n.2 di Bach. Amo la musica ma ne capisco poco. Con il musicologo Mario Ruffini avremmo voluto scrivere un libro a quattro mani sulle sinfonie giudicate da chi non se ne intende. Titolo: L’Asino in mezzo ai suoni».
Il film?
«Le diable au corps di Claude Autant-Lara».
Il libro?
«I Buddenbrook di Thomas Mann».
Lei sa quanto costa un litro di latte?
«No. Sono genovese ma non mi interessano i prezzi».
Quale parola aggiungerebbe alla Costituzione?
«Non ne ho idea. Anche perché non conosco tutte le parole che la compongono».
Non è appassionato della nostra Costituzione?
«Ammetto di no. Queste cose formali mi annoiano».