Vittorio Zucconi, il Venerdì 20/6/2014, 20 giugno 2014
PRESIDENTE IO? INTERVISTA ESCLUSIVA A UN POSSIBILE CANDIDATO
[Hillary Clinton]
New York . «Senti mamma, adesso basta, lasciami in pace per favore, non sei mica la prima a diventare nonna». Ride, di quella sua bella risata squillante e da ragazza, la signora che sogna di guidare l’America, ma non può dare neppure consigli alla figlia Chelsea incinta di cinque mesi senza essere respinta. E in quella sua ansia di prossima nonna per le nausee, le ecografie, i piccoli battiti, i test prenatali, come milioni di nonne qualsiasi, Hillary Rodham Clinton esce dalla storia e dalla cronaca che anche lei da una generazione ha scritto e sofferto e che vorrebbe continuare a scrivere, per rientrare nel mondo dove il resto di noi vive.
Lei è nonno? Mi chiede nella suite dell’Hotel Peninsula a Manhattan dove la incontro in esclusiva per il Venerdì di Repubblica . «Sì, Madam Secretary », come vuole essere chiamata, dal suo ultimo incarico di Segretario di Stato. Quanti nipoti? «Sei». Ah, però, allora può darmi qualche consiglio, qualche dritta... Scusi, Madam Secretary, non vorrei sembrare scortese, ma sarei io quello che dovrebbe intervistare lei... «Ah, già (ride) ha ragione. Prego, prego».
So già, perché le è stato chiesto mille volte specialmente ora per l’uscita del suo libro Hard Choices (Scelte difficili) che ha venduto un milione di copie negli Usa in una settimana, che non ammetterà ufficialmente di essere nella corsa del 2016 per la Casa Bianca del dopo Obama. Ma ci possiamo danzare intorno sempre più vicini, come una tribù nella notte del villaggio globale, attorno al fuoco, fuochino fuochino.
Perché mai una persona sana di mente, colta, esperta, che ha visto e vissuto gli orrori delle campagne elettorali dal di dentro, dovrebbe voler subire quelle torture e diventare Presidente?
«Perché pensa, crede fermamente, di poter fare la differenza in meglio nella vita della propria nazione, diminuendo le diseguaglianze, distribuendo più giustizia».
Per questo lei potrebbe concorrere?
«Non c’è altra ragione, per cercare di essere eletti in una democrazia, che questa: fare la differenza nel meglio per il tuo Paese, nessun’altra ragione, o è soltanto ambizione, vanità, voglia di potere. Quelle cose che rendono opaca la politica, che disgustano gli elettori, che trasformano i politici in personaggi che i cittadini disprezzano, perché li vedono intenti soltanto a fare i propri interessi».
E ne soffrono le nostre democrazie.
«Nascono i populismi, rinascono i nazionalismi, i demagoghi che mettono a rischio il benessere di noi tutti».
Ma poi la fanno, poi la fate, questa benedetta differenza?
«Quando Bill ( che sarebbe il marito ed ex presidente ) uscì dalla Casa Bianca, lasciò un’America più prospera di come l’aveva trovata, con sette milioni di persone al lavoro in più, il bilancio in attivo, buoni rapporti con il resto del mondo. Adesso mi dica lei se quando George Bush lasciò la Casa Bianca poté dire di averla lasciata in condizioni migliori. Basti pensare alla catastrofe dell’Iraq. Soltanto un fazioso accecato dalla partigianeria potrebbe dirlo».
S’immagini, Madam, un duello Clinton e un altro Bush nel 2016, il mondo riderebbe al ritorno delle dinastie.
«Sarebbe curioso, chissà, dipenderà dagli elettori americani».
Ci ho provato e ci siamo andati molto vicini a quella ammissione che non vuole ancora fare. Ma per squillante che sia la sua risata, e ringiovanita la sua immagine nei 67 anni portati con allegria anche dopo la caduta e la commozione cerebrale (a proposito, come va la salute? «Eccellente»), da troppi anni seguo questa inaffondabile signora per non ricordare, alla menzione di «Bill», le sere plumbee e ignobili dell’affaire Lewinsky.
Molte donne, molte mogli, non avrebbero accettato l’umiliazione di quelle ore, First Lady o signore della porta accanto che fossero. Perché lei, Hillary, decise di restare a fianco di Bill invece di andarsene?
Non ride più. «Sono scelte personali, totalmente personali. Rispetto chi avesse fatto una scelta diversa. Io ho preso la decisione che era giusta per me. Anche sedici anni dopo, non ho nessun dubbio di avere preso la decisione sbagliata, nel contesto della nostra storia di coppia, da quando eravamo studenti a Yale, nel rapporto con la figlia che cercavamo di crescere, della mia relazione con lui».
Non pensò mai di lasciarlo?
«Pensai a tutto, ai pro e ai contro e se ora dico che sono convinta di quella decisione di restare non voglio dire che non fu una scelta dolorosa. Molto dolorosa».
Si rese conto che fu lei a salvare la presidenza di suo marito, che milioni di donne guardavano a lei per decidere se abbandonare Clinton o continuare a sostenerlo?
«Molte donne sanno che tutti commettono errori, ma che non tutti gli errori vanno in scena su un palcoscenico globale, che sono sfruttati per fini politici. Guardarono all’errore di un essere umano, non di un presidente».
Le conseguenze sarebbero state enormi.
«Lo so, lo sapevo. Ci sarebbero state conseguenze disastrose per il nostro sistema di governo, per la separazione dei poteri, e molti, non soltanto donne, riuscirono a vedere attraverso la sceneggiata politica».
Che cos’è, Madam Secretary, l’amore coniugale dopo quasi quarant’anni di matrimonio?
«Oh mio dio, è un regalo immenso, ma al quale si deve lavorare ogni giorno. Non piove dal cielo, come si crede il giorno del matrimonio».
Che cosa rimane di quel momento, di quelle promesse, di quei sogni?
«La gioia di avere attraversato insieme tante prove e di sapere ancora ridere insieme in un rapporto più profondo e complesso».
Visto che del resto rimane poco?
«Eh sì... (Ride)».
Trascorre molto tempo con Bill?
«Quanto più possiamo».
Che risposta da politico, Madam.
«No, davvero. Siamo tutti e due occupatissimi, cerchiamo di combinare le nostre agende, di uscire a cena, di avere qualche ora per chiacchierare soli nella nostra casa, come se prendessimo appuntamenti da fidanzati».
Riesce ancora a farla ridere?
«Moltissimo. E riesco a far ridere lui».
Non rideva, questa donna oggi vestita nel suo classico, ma più femminile con pizzi e ricami, tailleur pantalone blu petrolio adornato da una collana di grosse pietre povere multicolori, il giorno in cui assistette, dalla Situation Room , della Casa Bianca, alla diretta della cattura e dell’esecuzione di Osama bin Laden. Rivedo la foto di gruppo e lei, Hillary, con la mano sulla bocca, in gesto di angoscia.
«Vedemmo tutto in tempo reale, gli elicotteri che atterravano nel cortile del fortino di Osama, i nostri Seals che assaltavano l’edificio, la coda dell’elicottero che colpì un muro, ma riuscì a posarsi comunque e mi chiusi la bocca per impedire che il cuore mi uscisse dalla gola...».
Perché ucciderlo così, e buttare il cadavere nell’oceano?
«Avremmo potuto distruggere quel fortino con droni e missili, ma non avremmo mai avuto la certezza che anche lui fosse morto. Così, l’avemmo».
Ma poi, come per l’11 Settembre, sono sbocciate le teoria complottiste. «Ma per favore, ma quale persona sana di mente può accettarle? Lei, io, tutti coloro che sanno ancora ragionare non possono credere a queste follie».
Eppure quella mano sulla bocca, in una istintiva reazione di orrore, sembrò segnalare, rispetto ai maschi che assistevano all’operazione Zero Dark Thirty un elemento di femminilità, di diversità, forse di pietà. Come sarebbe diversa una donna presidente da un uomo presidente?
«Ah! Non lo so, non ne abbiamo mai avuta una, come posso saperlo? Me lo dica lei, cosa hanno fatto le donne presidenti in Italia....».
Veramente...
«Appunto. Non possiamo saperlo. Ma so che una donna alla Casa Bianca segnalerebbe che l’ultimo soffitto di cristallo è stato finalmente infranto, come Obama ha frantumato la barriera razziale, e che una donna a capo dello Stato potrebbe finalmente dire che la promessa della Costituzione di eguaglianza fra gli esseri umani senza distinzione di razza, genere, religione è stata mantenuta».
Quella promessa che invece l’Europa politica sembra a tanti ormai disattendere. Sopravviverà, domando a colei che per quattro anni è stata il volto, e la mente, della politica estera americana, l’Unione Europea?
«Se vuole sopravvivere, dovrà cambiare molto. Dovrà tornare vicina ai cittadini, alle loro ansie e richieste, uscire dall’incrostazione della burocrazia, dalla lontananza delle istituzioni. Voglio sperare che ci riesca, perché il mondo avrebbe bisogno di un’Europa viva e forte, ma deve cambiare, e deve farlo in fretta. Torniamo alla sua domanda iniziale sul discredito della politica e sulla crescita dei populismi: gli elettori scelgono persone che poi ignorano le ragioni per le quali sono state elette e non possono poi lamentarsi».
Si fida di Putin?
«Proprio per niente».
E di Berlusconi, del quale lei nei dispacci passati a WikiLeaks sembrava diffidare, che ricordo e che opinione ha?
«Con tutti i suoi problemi, Berlusconi è stato un amico fedele dell’America, pensi alla Libia».
Sembra lo storico cinismo della Grande Potenza che non ha amici permanenti, ma soltanto interessi permanenti.
«Eravamo preoccupati perché lui si sentiva offeso, magari spinto a reazioni sbagliate, ma è stato un buon amico. E non ci provi, non mi farà dire altro di lui».
Non ci provo, perché conosco l’avvocato, First Lady, Senatore, Segretario di Stato e ora autrice in attesa di più alti destini, troppo bene da troppi anni per non sapere che dietro la risata argentina, le spillone vistose e di poco prezzo fatte a mano per lei e per l’amica ex segretario di Stato Albright dalla artigiana di Washington Ann Hands («Lo sa che ha cambiato negozio?» m’informa, notizia che passerò a mia moglie) c’è una donnina di ferro. Capace, lo abbiamo visto, di continue Hard Choices di scelte durissime.
Avrebbe quasi 70 anni, l’età di Ronald Reagan, nel gennaio del 2017, se dovesse sconfiggere gli spettri del passato, l’odio che anima milioni di americani, la campagna elettorale che i fanatici ormai padroni del partito Repubblicano le scateneranno contro, gli scheletri, veri o immaginari, che andranno a rispolverare nei suoi armadi e in quelli del suo sempre più grigio, ma non meno fascinoso, consorte.
Ma anche una breve mezz’ora in una suite d’hotel a Manhattan bastano per vedere che questa donna ha the fire in the belly, il fuoco dentro di chi si sente scelta dal destino per completare la storia della democrazia americana portando una donna in quello stesso ufficio dove il marito consumò la sua umiliazione e lei la sua resurrezione. Sarebbe non soltanto la prima donna, ma la prima nonna presidente.
«Pensi che mia figlia neppure mi vuol dire il sesso del bambino» sospira, dice che non lo vuol sapere neanche lei...
«È difficile fare il nonno?» ricomincia la sua intervista a me mentre facciamo la foto di rito, ma non il selfie .
Tutto quello che le posso dire, Madam, è che forse non è molto diverso dall’esser un buon presidente: mai fare ai nipotini e agli elettori promesse che non puoi mantenere.
Vittorio Zucconi