Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  giugno 20 Venerdì calendario

COGNE E LE INDAGINI SCIENTIFICHE LA STORIA NON HA INSEGNATO NULLA


La notizia che Annamaria Franzoni può uscire dal carcere perché risocializzabile, è di quelle che, in tempi di crescente giustizialismo, dovuto all’espandersi della criminalità politica e istituzionale, fa piacere ma fa anche discutere. Ho sempre creduto e continuo a credere nell’innocenza della mamma di Cogne, ma si deve riconoscere che parlare di risocializzabilità solo ora e non fin dall’origine è il suggello ipocrita impresso a questo caso dalla giustizia italiana.
Parliamo oggi, starei per dire con rinnovata passione, di dubbi sulla efficienza della investigazione e del sistema processuale italiano, di fronte a casi come quello della uccisione di Yara Gambirasio. Ne parliamo specialmente per le capacità degli inquirenti ma soprattutto per il ruolo della prova scientifica, dal DNA alle tecniche di comunicazione. Cogne fu un concentrato di tutte queste cose e fu anche la prima esperienza giudiziaria in cui tutto, pregi e difetti, venne alla luce coinvolgendo l’opinione pubblica in un appassionato dibattito tra colpevolisti e innocentisti, che ancor oggi non si è placato nonostante una sentenza passata in giudicato e la carcerazione della Franzoni. Fu anche, quel processo, teatro di una sperimentazione mediatica senza precedenti e che, come queste ultime ore dimostrano, si è definitivamente impadronito di tutto lo scenario giudiziario, che oggi fruisce di un controllo dell’opinione pubblica che supplisce a quello istituzionale, divenuto un colabrodo.
Credo che si possa cominciare a fare qualche bilancio, anche in vista di importanti tappe che la politica sembra voler compiere nell’ammodernamento del sistema. Quanti interrogativi e quante accuse, furono, durante la vicenda giudiziaria di Cogne, coltivati sulla mediatizzazione giudiziaria e sui suoi pericoli! Oggi possiamo dire con certezza che, pur nelle lamentele che non possono mai mancare, il controllo e il dibattito di stampa e televisione non solo sono divenuti un potere inestimabile della nostra civiltà; ma hanno reso più prevenuta la magistratura che ha imparato a difendersene e al tempo stesso a trarne vantaggio, spesso anche dal punto di vista investigativo. Il giornalismo d’inchiesta è divenuto un punto qualificante dell’intera opera professionale del cronista e del commentatore.
Cogne fu il processo che fece esplodere le maggiori problematiche sui metodi di indagine, sulla carenza del sistema difensivo, sullo strapotere dell’accusa rispetto alla difesa, giunta persino ad essere in criminalizzata. La magistratura, e prima di essa gli investigatori, non tolleravano il potere di indagine difensivo che sentivano come espropriazione di un monopolio e come una pericolosa ingerenza del privato nel pubblico. Non mancarono operazioni prevaricatrici e non si fece attendere la presa d’atto della carenza di strumenti di indagine per gli imputati, spesso sbarrando la strada ad ogni possibilità di approfondimento. Né mancarono le intimidazioni. Le inchieste difensive furono il pretesto per autentiche incriminazioni poi dissoltesi come neve al sole.
Ecco, possiamo dire che tutto ciò è acqua passata. Quel processo servì a dare una spallata al preconcetto ed all’arroganza della magistratura, a beneficio di un confronto tra accusa e difesa, se non ad armi pari, certamente più equilibrato per strumenti e per poteri da esercitare.
Cogne fu anche, come ho detto, il territorio della più sofisticata sperimentazione delle prove scientifiche e tecnologiche. Da allora i processi si sono fatti con DNA, celle telefoniche, tabulati, ricostruzioni tridimensionali, esperimenti informatici e tante altre cose. Ma quel processo non riuscì subito ad insegnare limiti e pericoli, croce e delizia di questo tipo di indagini, anche perchè erano monopolizzate da forze dell’ordine assolutamente non adeguate e che i massmedia enfatizzavano, la lamentela generale era quella dell’erroneo abbandono della investigazione tradizionale, quella dei marescialli, tanto per intenderci, con danno per i risultati delle indagini.
Quel malessere non risulta essere stato superato ed anzi appare decisamente aggravato. Penso alle incredibili baggianate consumate nella vicenda di Alberto Stasi; alle intollerabili omissioni per il processo di Perugia per la uccisione di Meredith e in queste ore alla storia incredibile di Yara Gambirasio, dove si continua a sbattere in galera la gente, ieri Fikri e oggi Bossetti, senza far caso ad altro che non sia la prova scientifica che tale non potrà mai essere perché in tutti i processi penali la prova è probabilità di comportamenti e non soltanto dei dati tecnici. Sotto questo profilo, il percorso da compiere è secondo me, ancora molto lungo perché non è fatto di strumenti di potere, ma di formazione di mentalità.
Chiudo, tornando al punto di partenza. Se non si recuperano logica del dubbio e presunzione di innocenza nell’accostarsi alla ricerca delle prove, si rischia di fare un percorso lastricato di insuccessi per la giustizia ed una sorta di metallizzazione delle inchieste per la loro lontananza dall’umanità dei comportamenti.
Carlo Taormina