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 2014  giugno 20 Venerdì calendario

TRA I DELUSI DA AL MALIKI “LA COLPA È SUA SE IL PAESE VA IN PEZZI”


ERBIL (KURDISTAN IRACHENO).
«No Al Maliki!». Lungo la cinta della vecchia Erbil, capitale della regione autonoma del Kurdistan iracheno, il manifesto con il volto impassibile di Nuri al Maliki, compare sfregiato sui muri con una scritta e un taglio. Una cicatrice profonda, che l’attraversa in modo obliquo da parte a parte, e che misura non solo la lunghezza della ferita, ma i rapporti ormai strappati fra il premier sciita di Bagdad e i suoi rapporti con i curdi.
Nel palazzo del governo, il primo ministro del Kurdistan, Nechirvan Barzani, dà sul leader iracheno un giudizio definitivo: «Le violenze in corso non sono imputabili solo ai terroristi dello Stato islamico dell’Iraq e della Siria, l’Isis. Sono il risultato di una politica sbagliata nei confronti dei sunniti, che si sentono trascurati da Al Maliki. Tra lui e i sunniti non c’è fiducia, come non c’è fiducia tra lui e i curdi. Gli Usa dovrebbero farlo dimettere. Credo che la soluzione migliore sia la creazione di una regione sunnita. Com’è stato per il Kurdistan».
Capro espiatorio, o vero responsabile di un Paese che va in pezzi, al suo terzo mandato da premier, Nuri al Maliki è contestato da tutti e salvato da pochi. I sunniti, al potere sotto Saddam Hussein e oggi il 33 per cento degli iracheni, sono delusi da una leadership che ha mostrato debolezza e clamorosi vuoti di potere. Come il giorno in cui la polizia scappò da Mosul lasciando la fortezza petrolifera dell’Iraq nelle mani dei miliziani qaedisti. Ecco che cosa dice l’ex vice presidente Tareq al Hashimi, fuggito da Bagdad nel 2012 dopo un mandato d’arresto per un presunto sostegno ai gruppi sunniti: «Contro le politiche settarie di Al Maliki è in atto una “primavera araba”. Una rivoluzione a cui partecipa tutto il popolo iracheno. I media diffondono l’idea che quanto succede oggi a Mosul e nei dintorni sia pilotato da Al Qaeda e dall’Isis. Questa è una grande bugia. Si tratta di un problema tutto iracheno, e gli iracheni possono risolverlo da sé».
In un Paese-mosaico, tenuto a fatica da etnie contrapposte, lo sfaldamento tocca pure le confessioni religiose. I cristiani di Mosul, ad esempio, dicono di sentirsi più sicuri adesso che la città è nelle mani dell’Isis piuttosto che sotto il governo centrale del premier. Scappati nel momento in cui i jihadisti arrivarono conquistandola seminando il terrore, stanno ora facendo ritorno alle proprie case. «La situazione — spiega un cittadino di fede cristiana rientrato dopo tre giorni di fuga in Kurdistan — è molto più tranquilla rispetto a com’era prima dell’intervento dell’Isis. È migliorato il rifornimento di servizi, luce e acqua, mentre in precedenza c’erano interruzioni. Meglio anche la circolazione, con tutte le strade aperte alle auto, senza più posti di blocco messi su dalla sicurezza irachena».
E se questi sono i giudizi che si raccolgono in Iraq, i commenti che giungono dall’estero sull’operato del governo di Bagdad non paiono affatto lusinghieri. Arabia Saudita, Qatar e Kuwait accusano il premier iracheno di aver condotto il Paese sull’orlo dell’abisso per la sua «politica di esclusione dei sunniti». Dal Palazzo delle Nazioni Unite, a New York, il segretario generale Ban Ki Moon gli chiede di avviare un dialogo per tentare di fermare le violenze settarie che insanguinano il Paese. Ma sono i giudizi impietosi degli Stati Uniti a pesare. Il capo di Stato maggiore americano, generale Martin Dempsey, l’altro giorno ha gettato ad al Maliki la “colpa” della rivolta sunnita: «Gli Usa ora possono fare poco per colmare il vuoto in cui il governo ha fatto precipitare il suo popolo». Il Segretario di Stato, John Kerry, in modo diplomatico ha detto che il premier dovrebbe «fare di più per mettere da parte le differenze settarie in Iraq». Ieri il Wall Street Journal scriveva che l’Amministrazione Obama punta a nuovo governo iracheno senza Nuri al Maliki, «ritenuto incapace di riconciliarsi con minoranza sunnita e di stabilizzare il Paese».
Nel suo discorso di ieri il presidente americano non ha invitato il premier a dimettersi, ma ha sottolineato che è necessario affrontare le «profonde divisioni fra sunniti, sciiti e curdi» e che i leader iracheni devono provare a «superare le proprie divergenze».
Lui si difende parlando di «complotto». Come quando sostiene che Mosul è stata presa perché «le forze dello Stato islamico dell’Iraq e della Siria non hanno la forza della polizia e dei militari iracheni». Ergo: l’Isis sarebbe stato foraggiato da fuori. Al Maliki è spalleggiato dal solo presidente iraniano, Hassan Rouhani, che gli ha assicurato il «pieno sostegno» nella battaglia contro i jihadisti. Ha esautorato quattro generali responsabili a suo dire della fuga e della disfatta di fronte ai miliziani qaedisti. Ha avvertito i disertori dicendo che rischiano la pena di morte. Accusa i curdi di collusioni con i sunniti, facendo intendere di essere i principali attori della disgregazione del governo centrale. Minaccia di chiudere l’ufficio della tv al-Arabiya impedendo ai suoi corrispondenti e a quelli dell’emittente sorella al-Hadath di lavorare.
Il premier di Bagdad si dice solo fiducioso che gli iracheni sapranno risolvere la crisi «con le proprie mani, senza l’aiuto di nessuno». Chiama a raccolta i «volontari » perché si arruolino tra le fila delle forze armate contro gli insorti. Va in tv e rivolge appelli a «tutti coloro in possesso di armi» perché scendano in battaglia. Lancia proclami retorici: «L’Iraq non sarà mai sconfitto. Il Paese è con voi, il governo è con voi». In pochi, però, lo ascoltano. Mentre l’Iraq com’era un tempo sembra andare definitivamente in pezzi.

Marco Ansaldo, la Repubblica 20/6/2014