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 2014  giugno 20 Venerdì calendario

PALAZZO RENZI


Ultimo Consiglio dei ministri, parla Matteo Renzi. Ha un’idea da inserire nella riforma della Pubblica amministrazione: una norma per cui tutte le nomine di qualunque ministero, dai porti alla sanità, devono passare obbligatoriamente al vaglio di Palazzo Chigi. Cioè da lui. Segue attonito silenzio, finché uno dei ministri della tavola rotonda del Consiglio si fa coraggio e segnala con una battuta che c’è un precedente: «Non sei il primo a proporre una cosa del genere. Un codicillo simile fu approvato nel ventennio...». La proposta viene rottamata.
Un caso raro. In genere, passa tutto. Tutti i poteri a Palazzo Chigi. O meglio, Palazzo Renzi. Una guerra lampo che non è riuscita a nessuno. Né Romano Prodi, né Mario Monti, né Enrico Letta che di quel palazzo era il prediletto, e neppure il tycoon Silvio Berlusconi erano riusciti a espugnare il cuore del potere romano che continuava a battere poderoso, indifferente ai cambi di guardia. In poco più di cento giorni, invece, è saltato tutto. Renzi vive a Palazzo Chigi, dorme e mangia lì, ma è come se stesse all’esterno. E dopo il voto delle europee muove alla conquista della macchina governativa con il metodo già sperimentato per espugnare il Pd. Una tattica fondata sull’attesa. Fare il vuoto. Aspettare il collasso delle strutture precedenti per mancanza di ossigeno. E poi proporsi come salvatore della patria, per acchiappare e controllare tutto per davvero.
I mandarini di mille gabinetti lo accusano di scarso galateo istituzionale. Gli innovatori, tifosi della rivoluzione renziana, aspettano con ansia la liberazione. Entrambe le fazioni sono spiazzate, stupite dalla tattica attendista del premier. L’uomo della velocità, del cronoprogramma, delle riforme epocali in tre mesi, la pubblica ammistrazione, il fisco, la giustizia, a Palazzo Chigi non ha ancora firmato un decreto di nomina negli uffici «di diretta collaborazione», come recita la dicitura di palazzo. Non ha una sua segretaria, zero staff, i dignitari più vicini sono due fotografi, l’ex poliziotto Filippo Attili, già in forze alla presidenza, e Tiberio Barchielli, in calata da Rignano sull’Arno, il paesello d’origine della famiglia. Gli unici con cui si ferma e con cui condivide i vertici con Obama e la dose quotidiana di prosciutto toscano. Qualche giorno fa è avvenuto l’incredibile, nel cortile d’onore ne parlano ancora. Uno dei fotografi bussa alla porta di Mauro Bonaretti, il segretario generale, alter ego emiliano del sottosegretario Graziano Delrio, il vertice della macchina di 4500 dipendenti. Bonaretti apre e il reporter spiega il motivo dell’improvvisata: una richiesta di stanziamento, urgente, per apparecchiature fotografiche. Impossibile pensare a una scena del genere con i mitici predecessori di Bonaretti, tipo Andrea Manzella o Antonio Catricalà. Meglio non riferirlo a Annamaria Tarantola, Luigi Gubitosi, Ignazio Visco, Vito Riggio dell’Enac, per dire solo alcuni nomi che dall’insediamento del governo hanno chiesto di essere ricevuti dal premier senza ottenere risposta. E meglio non toccare l’argomento con qualche ministro, ancora provato dal black out di comunicazione durante il viaggio di Stato del premier in Cina.
Prima del risultato elettorale i più benevoli definivano la gens renziana “disinvolta”. Una questione di mera forma, ma a volte forma e sostanza si toccano. Per esempio, chi ha visto Renzi alla prima riunione del Cipe, l’organismo che dà il via libera alle Opere pubbliche, presieduto per legge dal premier? Ora dopo il clamoroso 40 per cento tutti tremano. E nessuno sa niente.Tanto è tutto sull’i-phone di Matteo. Il premier accumula deleghe che in altri tempi avrebbero richiesto una pletora di ministri, con portafoglio o senza. L’antidroga? Ci pensa lui. La protezione civile? Sotto la sua ala. Le Pari Opportunità? Pure. Il dipartimento di politiche economiche? Ancora lui. E visto che resta qualche minuto libero, perché non occuparsi perfino della Commissione per le adozioni internazionali? Senza dimenticare la questione dell’edilizia scolastica per cui Renzi lancia proposte, parla in continuazione, il suo pallino. «Buongiorno, buongiorno, lavorate, lavorate», passa come un furetto nel primo piano della presidenza, «spargendo idee che nessuno raccoglie, per effettiva mancanza di una squadra», racconta uno degli inquilini di Palazzo.
Intorno a Renzi si raccoglie uno staff sparuto e eterogeneo che lo segue ovunque, anche all’estero. Un ambasciatore, uno spin doctor-blogger, una capa del cerimoniale, tallonati dai soliti due fotografi. Il consigliere diplomatico Armando Varricchio, l’unico miracolato da un decreto di nomina. Si racconta che il mancato invito al premier alla cerimonia in Normandia per l’anniversario dello sbarco abbia provocato un certo cattivo umore tra Palazzo Chigi e la Farnesina.Alla fine per placare gli animi esacerbati, il capro espiatorio è stato individuato in François Hollande, è lui il colpevole che ha mandato la lettera al presidente Napolitano escludendo di fatto il traballante premier Enrico Letta. A calmierare la vis verbale di Renzi c’è il portasilenzi Filippo Sensi, un fantasma per l’organigramma di Palazzo Chigi, in attesa di perdere prima o poi lo status di clandestino, tanto che ancora risulta capo ufficio stampa del Pd. Figura indispensabile del mini staff è Ilva Sapora, direttore del dipartimento Cerimoniale di Palazzo Renzi e quindi responsabile dell’etichetta di un premier incontrollabile.
Finora l’unica nomina di peso che porta il “brand” renziano è Antonella Manzione. Ex capo dei vigili urbani di Firenze, e ci mancherebbe, è approdata alla guida dello strategico dipartimento degli Affari legislativi, dopo un conflitto con la Corte dei Conti e lo svenimento di mezzo Palazzo Spada. Il primo schiaffo all’odiata stirpe dei consiglieri di Stato colpevoli di aver trasformato i governi in una “palude” piuttosto che in un centro decisionale. È la vigilessa a smistare il traffico nell’intasato pre-consiglio dei ministri e a fare da battistrada per le scelte più recenti all’Agenzia delle Entrate, alla Consob. Al di là di competenze e titoli, il primo dei requisiti per salire di grado nell’era renziana è l’estraneità alla Capitale e alle sue cordate. Via libera a Anna Genovese nel board dell’organismo di controllo della Borsa e a Rossella Orlandi, nostra signora delle tasse che ha sostituito il potente Attilio Befera.
E il Palazzo? Si vive sospesi, nell’attesa delle prossime nomine. Prima il verbo era distribuire e accumulare, incarichi, posizioni, indennità, ora è tenere tutti sulla corda. Il premier faceva così da sindaco, con i suoi assessori e collaboratori. A Chigi e dintorni le alte burocrazie non si sentono riconosciute e neppure legittimate, in apparenza nessuno è stato ancora toccato, ma in realtà nessuno ha un ruolo preciso, un sentimento comune della casta è la frustrazione e l’immobilismo. «Cosa ha in testa il premier?», chiedono, e soprattutto: «Quando lo metterà in pratica?». Lo spettacolo è la metafora del fortino, capovolta, però: assediato non dai nemici ma dai questuanti. È sempre stato così, ma questa volta la porta resta chiusa. Forse per questo, in tre mesi, Renzi non è uscito se non per le visite ufficiali, per prendersi un caffè democratico con scorta o per comprarsi un pacco di libri nella galleria di fronte al palazzo. Giornate da recluso dorato, pizza al taglio e potere, «si muove tra il primo e il terzo piano», raccontano, non precisamente una vita spericolata. Non lavora all’epurazione ma a una mutazione. All’invasione degli ultra-Renzi.
Già, adesso tutti si dicono renziani. Nei ministeri sono molti di più del quaranta per cento, diciamo l’unanimità. Ma ormai non basta dichiararsi renziani, se tutti lo sono è più vantaggioso differenziarsi. Sarà per questo che al vertice del governo cominciano i distinguo, le prime rivalità. Spuntano i renziani di rito Delrio, fedeli al sottosegretario. Ma anche i renziani di rito Lotti inteso come Luca, l’altro sottosegretario, 32 anni il 20 giugno, negli ultimi tempi si è allargato, non più un compagno di calcetto bensì un asso pigliatutto: editoria, comunicazione, anniversari, centenari, la segreteria del Cipe. E il raccordo con i servizi.
Due riti agli antipodi. Ortodosso Delrio, dossettiano, quasi di clausura, pochissimi convegni e fuga in treno a Reggio Emilia il venerdì sera. Disinvolto Lotti, privo di pregiudizi, sa quando lasciare filtrare quel che serve alla Causa, quella di Renzi, e anche la sua. Allo scoperto sul caso Orsoni («non è del Pd», scomunicò l’ex sindaco di Venezia arrestato), sui dissidenti («Mineo è un traditore»), sulla Rai è lui il referente del governo per la riforma della tivù pubblica.
È destino che il rito emiliano e quello toscano si sovrappongano. L’argomento è all’ordine del giorno e ruota intorno al ruolo del segretario generale Bonaretti. Lui è uomo di Delrio. Come la sua vice Marcella Castronovo, ex direttore del Personale dell’Anci, associazione dei comuni italiani in cui l’ex sindaco di Reggio Emilia è di casa. Peccato che il secondo vice, Raffaele Tiscar abbia un profilo opposto. Ciellino, seguace di Don Giussani, in forza alla Regione Lombardia in epoca Formigoni e soprattutto toscano.
Il culto renziano ha come dogma la suprema riservatezza. E infatti chi ha la fortuna di solcare le stanze del primo piano, quella di Delrio è la stessa da cui governò Prodi, quella di Lotti invece è attaccata al sontuoso ufficio di Renzi, nota immediatamente l’assenza di carte, documenti e appunti scritti. Un’altra astuzia perché nulla trapeli e nessuno sappia niente. E infatti nulla si sa più della struttura messa in piedi dal governo Letta per il semestre di presidenza europea dell’Italia. Il team era a Palazzo Chigi alle dirette dipendenze del premier che lo portava in palmo di mano. Con Renzi, tutti confermati, per carità, ma traslocati nel palazzo di fronte, dove alloggia il sottosegretario agli Affari europei Sandro Gozi, orfani di contatto e soprattutto di input. Tanto, a fare l’agenda del semestre di Renzi ci pensa Renzi.
Stessa sorte per Carlo Cottarelli commissario dei tagli e dei risparmi acclamato come il Messia della spending review. Nessuno l’ha ridimensionato, è stato confermato con tutti i crismi, ma è come se fosse svanito. Grande afflato, invece, per Maurizio Martina, il ministro dell’Agricoltura, caratterialmente un giovane vecchio, compassato e misurato, prudente, con la ricca delega all’Expo. Poi c’è il ministro della Salute Beatrice Lorenzin così in sintonia da provocare voci spericolate sulla sua ambizione di passare dall’Ncd al Pd. Mentre il segno dei tempi è il via vai del ministro dell’Economia, da sempre un contropotere rispetto al capo del governo. Tocca a Pier Carlo Padoan spostarsi con la sua montagna di carte e di collaboratori dal dicastero di via XX settembre a Palazzo Renzi. I giornali ipotizzano scontri e divergenze ma in realtà dal decreto sugli ottanta euro in poi i ruoli sono chiari. Il premier fissa l’obiettivo politico da raggiungere a tutti i costi, Padoan si arrangi a trovare le coperture.
L’unico palazzo che resiste allo svuotamento renziano resta il Quirinale. Dopo i governi Monti e Letta, mai c’è stata tanta attenzione ai documenti che arrivano dai ministeri ai consiglieri giuridici della presidenza della Repubblica. Le correzioni si sono pesantemente abbattute sulla riforma della pubblica amministrazione firmata dal ministro Marianna Madia. Sul semestre i ministri si sono presentati dal Capo dello Stato per illustrare un faldone sulla road map europea. Lì, sul Colle più alto, il potere è condiviso, tra Napolitano e il premier. E la rivoluzione renziana dovrà ancora aspettare.