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 2014  giugno 20 Venerdì calendario

NEL PAESE DELL’UOMO NERO CHE SI FACEVA CHIAMARE PAPÀ

Viette e villette, impiegati e contadini, un benessere ragionevole e una pace quasi svizzera. Il fulmine che ha disintegrato la beata comunità di Motta Visconti è di quelli che neanche immagini possano esistere e tantomeno arrivarti addosso, proprio lì, dove persino la natura è piatta e il Ticino va pianissimo. Don Giovanni Nava, parrocco di questa comunità stordita: «Siamo in 7mila, più o meno ci conosciamo tutti. Ecco, provi a trovare una persona, anche una sola, che dica: c’era da aspettarselo. Nessuno, glielo assicuro. Su Carlo, chiunque avrebbe messo la mano sul fuoco. Educato, attento, delicatissimo coi figli, suoi e degli altri. Sabato, ai funerali, chiederò di pregare anche per lui. Ha distrutto tre famiglie in un colpo solo: due nell’anima, i genitori suoi e della moglie, e una, la sua, sterminata in proprio. Io prego e so che anche il Papa lo sta facendo: per i morti, i sopravvissuti e perché Carlo sia redento».
Ditelo ai bambini che l’uomo nero esiste davvero e che è diventato molto bravo a travestirsi, a ingannare la loro fiducia. Capita persino che l’uomo nero abiti addirittura in casa, viva con loro, si faccia chiamare papà, e poi d’improvviso una notte, mentre dormono, strazi la mamma, li raggiunga nella cameretta, affondi la punta di un coltello nel loro collo e poi spinga, spinga forte, finché la vita scivola via e il sogno che stavano facendo finisca annegato nel sangue di un cuscino.
Non fosse per la saga sconvolgente e tragica che sta srotolandosi intorno al povero corpo intirizzito di Yara, sarebbe Motta Visconti la nostra nuova capitale dell’orrore. In questo paese piccolo e ordinato tra Milano e Pavia, sabato scorso, una partita dell’Italia fa, il signor Carlo Lissi, 32 anni, incensurato e incensurabile dottore in economia, il figlio-padre-marito che tutti sognerebbero, ha trasformato una villetta color salmone su due piani in uno di quei gironi infernali che già ospitano località marchiate in eterno come Novi Ligure, Cogne o la Montecchia di Pietro Maso.
«Vederli sgozzati nei lettini è la scena più brutta che abbia mai visto. L’aggressione alla moglie è stata di una ferocia spaventosa, ma i corpi di quei bambini non me li toglierò più dalla testa». Al generale Maurizio Stefanizzi, 54 anni, comandante provinciale dei Carabinieri di Milano, è toccato di sbrogliare il più in fretta possibile il caso di Motta Visconti, prima che qualcuno incautamente pasticciasse la scena del crimine come a Garlasco o Cogne, prima che montasse la caccia ai fantasmi venuti da chissà dove.
Lui e suoi uomini ci hanno messo 24 ore. Non era facile, non era neanche così difficile. L’assassino è stato implacabile ma non impeccabile. Il problema era e resta il movente, ma è un problema che sfonda il muro della nostra ragione e va molto oltre.
È la sera di sabato 14 giugno, intorno alle 23. In casa della famiglia Lissi, l’ultima prima di un boschetto, niente lascia presagire niente. Giulia, la figlia di quasi 5 anni, dorme nella cameretta al piano di sopra, e così Gabriele, 20 mesi, parcheggiato nel lettone dei genitori. Carlo e la moglie Maria Cristina stanno sul divano a vedere la tv. Sono sposati dal 2008, lei ha 6 anni più di lui, pare che alla vigilia delle nozze l’imminente sposo avesse provato a fermare tutto dicendo di non sentirsela più ma lei tenne duro, gli disse che così le avrebbe rovinato la vita: finì con un album nuziale vecchio stile, sorrisi e dolcezze a ogni scatto, lui sbarbato e ben curato come si conviene, mentre adesso, 6 anni dopo, porta i capelli rasati e un pizzetto malandrino, ma dicono che lo fa a ogni inizio estate perché va in moto, fa sport e non gli piacciono i capelli appiccicati.
Fuori piove forte, Carlo e Maria Cristina fanno l’amore lì dove sono, in salotto. Poi lui si alza, si infila le mutande, va in cucina dove c’è un tavolo coperto da una cerata multicolore e una palla di Peppa Pig tra le sedie, prende un coltello a lama lunga, torna alle spalle della moglie e affonda il primo taglio. Lei lancia un urlo: “Carlo! Ma perché? Carlo, no!”.
I vicini di villetta, una coppia più anziana, sentono qualcosa ma pensano siano gli schiamazzi dei ragazzi che si radunano al boschetto, e poi viene giù tanta acqua, magari si sono sbagliati. La moglie di Carlo, intanto, cerca di scappare verso la porta ma lui l’atterra con un pugno in faccia e la finisce con altre 5 pugnalate. Poi sale dai figli. Dal verbale della sua confessione: “Sono entrato da Giulia. Era a pancia in su. Le ho dato una coltellata alla gola. Dopo che ho estratto la lama, si è girata di lato e così è rimasta. Poi sono andato in camera da letto dove c’era Gabriele e anche a lui ho dato un’unica coltellata alla gola”.
Al pm Giovanni Benelli prova anche a spiegare che non era più innamorato della moglie ma che non riusciva a dirglielo. E all’obiezione del magistrato “comunque, non era meglio divorziare?”, l’irreprensibile signor Lissi dà una risposta che è una botola su un baratro: «Il divorzio non avrebbe risolto, perché i figli sarebbero comunque rimasti. E io volevo cancellare gli ultimi 6 anni della mia vita». Dal matrimonio a sabato 14 giugno.
Finita la mattanza, quel sabato sera, Carlo fa una doccia, si veste (e i vestiti sono e resteranno puliti perché quando ha agito era nudo, tranne che per le mutande) e raggiunge la casa di un amico dove si autoinvita con un sms: “Il Maffi mi ha paccato per andare allo Zimè a vedere l’Italia a mezzanotte, Vale mi ha detto che vengono da te, posso fare lo sfacciato e aggregarmi?”. L’amico, che non vedeva e non frequentava da tempo, gli risponde di sì: con lui sono in 17, non porta buono ma la nazionale batte lo stesso l’Inghilterra e l’assassino esulta ai gol come se niente avesse alle spalle. Per strada, si è anche liberato del coltello, gettato tra le grate di un tombino.
Al ritorno a casa, ritrova la scena che ha lasciato. Chiama disperato il 112, viene portato dai carabinieri, che intanto cominciano a indagare e scoprire che qualcosa, anzi molte cose non tornano. La cassaforte ha la combinazione ed è aperta ma senza scasso, la porta non è stata forzata, Lissi racconta che prima cosa si è buttato sulla moglie per vedere se era viva, dovrebbe avere le mani piene di sangue e invece sugli interruttori della luce che preme per andare a controllare le stanze dei figli non ci sono tracce ematiche.
Il raggio si allarga in fretta, si allunga sulla Wolters Kluver di Assago, dove Carlo è assunto nel ramo informatica. Spunta una ragazza di 24 anni, che è lì da poco e che lui avrebbe corteggiato negli ultimi mesi con sempre più insistenza. È in Svizzera, weekend col fidanzato. Viene convocata e spiega che sì, lui le sbavava dietro, era arrivato ai paroloni d’amore, nessuna molestia né abbozzo di storia però, perché lei gli aveva detto e ripetuto che stava bene con il suo ragazzo e che mai si sarebbe messa con uno sposato e con figli.
Nelle lunghe ore in caserma, i carabinieri sono abili a creare un clima informale, si chiacchiera, uno accenna a dei suoi problemi in famiglia, l’assassino comincia a fidarsi e confidarsi, e invece di disperarsi per quel che è accaduto, come farebbe qualsiasi innocente, e pretendere di essere lasciato andare, chiede una pizza. Ai funghi, se possibile.
Verso mezzanotte, quando il puzzle, per quanto pazzesco, è composto, le guardie danno un ultimo colpo alla ricostruzione di Carlo Lissi. Gli dicono che hanno rintracciato la collega di cui si è invaghito, che le hanno parlato. Gliene chiedono conto. E lui, a quel punto, si prende la testa tra le mani, tace qualche secondo e poi dice «voglio il massimo della pena» e in venti minuti racconta tutto. Li porta anche a ritrovare il coltello nel tombino. No, non dà segni particolari di disperazione. È lucido, giusto qualche lacrima, forse più da sfinimento che da reale coscienza del dolore.
La domanda, non l’unica, è se il massacro dell’uomo nero sia stato programmato o piuttosto sia il frutto irrefrenabile di un raptus. Chi gli è stato vicino nel percorso tutto sommato breve tra la finzione e la confessione propende per la prima ipotesi. Un matrimonio non per passione. Anche i figli, più subìti che scelti. E una moglie forte, o vissuta come tale. Si erano conosciuti ai tempi dell’oratorio, lei cantava nel coro, era una leader, era più grande in tutto. Lui giocava nella squadra di pallavolo, bravo come a scuola, come sempre, con tutti. Ma nella coppia era lei, almeno secondo lui, che guidava, che amava, che lo richiama alle responsabilità crescenti di marito prima e di padre poi. Invece Carlo Lissi si sentiva ancora un ragazzo, curava molto il proprio corpo, si piaceva e gli piaceva piacere.
Un divorzio, sfasciare la famiglia con due figli piccoli, gli sarebbe costato la disapprovazione di tanti, avrebbe macchiato la sua immagine perfetta. Invece una cosa come quella che è successa lo avrebbe trasformato in una vittima da coccolare (poverino, con quel che ha patito), lo avrebbe liberato da ogni legame, gli avrebbe ridato una vita di cui covava un desiderio sempre più selvaggio dentro e sempre ben mascherato fuori. Come la punta di un iceberg, sul suo profilo Facebook spunta una foto di “Walking Dead”, una serie tv piuttosto violenta, con il protagonista che punta dritto la pistola verso l’obiettivo.
Ecco il piano, e se così fosse, per quanto maldestra sia stata la realizzazione, aveva bisogno di tempo per essere varato: un’occasione per uscire la sera, lui che non usciva mai (la partita); il sesso con la moglie, a riprova che tra loro non c’era alcuna tensione; la casa messa sotto sopra da furibondi ladri-omicidi; magari anche un po’ di calmante ai bambini (ma questo lo potrà chiarire solo l’autopsia) perché non si svegliassero alle probabili grida della madre. E se invece fosse tutto e solo uno sbocco di incalcolabile follia, cambierebbe forse qualcosa dal punto di vista processuale ma niente da quello della possibilità di umana comprensione.
Nel 2013 a Motta Visconti c’è stata un’epidemia di suicidi: 8, di cui 2 di persone venute da fuori a impiccarsi nel parco del Ticino e 6 di abitanti del posto. Otto storie diverse, la crisi economica, una vecchiaia troppo malata, il picco di una depressione. Don Gianni Nava ne ricorda un’altra, quella di un ragazzo di 17 anni di buonissima famiglia: l’ultimo giorno prima delle vacanze natalizie, salta la scuola e manda ai compagni più cari una lettera in cui annuncia che si butterà da un ponte il primo di gennaio. Le lettere arriveranno dopo i suoi funerali. «Perché l’ha fatto e perché con questa pianificazione macabra?
La verità, come per Carlo Lissi, è insondabile. Il cuore che ti diventa di ghiaccio, un granellino per volta, neanche te ne accorgi, ma a un certo punto ti ritrovi davanti una montagna insormontabile. O uccido o mi uccido. E agisci come un automa».
Davanti alla villetta a due piani dell’uomo a due facce, appoggiati al cancello ci sono tanti mazzi di fiori, candele colorate, peluche di tutti i tipi, e cartelli commossi scritti e disegnati da bambini. C’è un’antica tradizione a Motta Visconti. Il 24 giugno, giorno della festa del patrono San Giovanni Battista, la sera prima si mette un vasetto pieno d’acqua in giardino, poi si aggiunge l’albume di un uovo. La mattina dopo, se c’è stata una buona rugiada, l’albume prenderà la forma di una barca. La speranza è che ci salgano sopra Giulia, Gabriele e mamma Cristina, e poi volino in cielo, o comunque lontano da qui.

Carlo Verdelli, la Repubblica 20/6/2014