Valeria Crippa, Corriere della Sera 20/6/2014, 20 giugno 2014
QUADRI DI EROTISMO
Una donnina in topless cavalca una Tour Eiffel dall’inclinazione malandrina. Da una coppa di champagne un paio di gambe femminili emergono sinuose, emblema del piacere nella Ville Lumière. La silhouette impertinente di un corpo venusiano impenna il bacino su tacchi vertiginosi. Sono mesi ormai che il Crazy Horse ammicca a Milano sfilando da autobus in corsa, pensiline dei tram, manifesti in metro. Il tempio parigino della seduzione che ha fatto sognare Fellini, De Sica, Duchamp e Dalí si prepara a sbarcare per la prima volta in Italia, al Teatro Nuovo di Milano dal 2 al 18 luglio, dopo oltre sessant’anni di gloriosa storia vissuta nella sede di Avenue George V, a ridosso degli Champs-Élysées che sbucano sotto la Tour Eiffel, nel Triangolo d’Oro dove si fronteggiano le maison de couture YSL, Givenchy, Balenciaga.
Luogo a uso esclusivo del piacere maschile? Meta di tour organizzati nel cuore più pruriginoso di Parigi? A fugare le perplessità che frullano in testa ci pensa il direttore generale del Crazy Horse, Andrée Deissenberg, una bella signora bionda che, nell’ufficio di velluto rosso che fu del fondatore Alain Bernardin, confessa con la erre arrotata dei francesi: «L’idea che il Crazy Horse sia roba per uomini è una spada sulle nostre teste, un vecchio pregiudizio che ci portiamo dietro. Non è vero. È uno spettacolo che piace prima di tutto alle donne. Certo, gli uomini apprezzano, ma la prima clientela è femminile. Le donne vi si riconoscono, perché è molto elegante verso di loro, qualcosa di bello su cui proiettarsi. C’è sempre stato un pubblico misto, con una parità dei sessi al 50% uomini e 50% donne. Ma negli ultimi sei, sette anni vediamo sempre più donne che vengono con le amiche, dopo aver lasciato a casa fidanzati e mariti. E di questo sono contenta, perché sono le donne il vero motore nell’acquisto dei biglietti a teatro».
Le milanesi non si comportano diversamente dalle parigine, sostiene Lorenzo Vitali, il produttore attivo in passato nella capitale francese, che dalla stagione scorsa ha rilevato la gestione del Teatro Nuovo di Milano e ha deciso di invitare il Crazy Horse per la prima volta in Italia. «Abbiamo già venduto 3 mila biglietti in prevendita — dice —, acquistati soprattutto da signore di ceto medio-alto che vogliono gustarsi con le amiche uno spettacolo parigino di classe, sorseggiando champagne. È un grande risultato, considerando che rinunciamo a 400 posti a sera per allestire il Teatro Nuovo come il cabaret di Avenue George V, tavolini con secchielli del ghiaccio».
L’idea gli è venuta quando ha messo piede al Nuovo, dove negli anni Cinquanta ballavano le Bluebell. «Pensare al Crazy Horse è stato inevitabile, ho un debole per le belle donne. E finalmente a Milano in luglio si respirerà un’aria internazionale, in attesa di Expo». Visitare la sede parigina del cabaret in Avenue George V, significa misurare con lo sguardo ciò che il fondatore Alain Bernardin intendeva con la sua «filosofia della frustrazione», l’immaginazione che scavalca «il vedo e non vedo» senza poter distinguere tra realtà e fantasia, un’estetica su cui l’ex artista d’avanguardia aveva eretto il proprio impero dello striptease nel 1951. Superato l’ingresso neoclassico, il Crazy Horse è un ventre cavo di scale strette e corridoi, dove dominano luci soffuse, velluti e un rosso assoluto. Com’è tipico di Parigi gli spazi sono angusti, scavati in meandri impensabili, la fila dei camerini, lo studio di Bernardin, le foto delle tante star passate di qui, Cher, Beyoncé, Dita Von Teese, l’attrice Arielle Dombasle, moglie del filosofo Bernard-Henry Lévy che ha voluto festeggiare i suoi 60 anni, dove si è esibita. Persino il palco è minuscolo, ricoperto di moquette e opportunamente studiato da Bernardin per far risultare ancora più imponenti le sue soubrette. La moquette è ovunque e riporta come motivo piccoli triangoli neri che astraggono la forma del delta di Venere.
Un altro accorgimento dell’astuto Bernardin per evitare promiscuità tra le girls e i tecnici del cabaret, è una netta distinzione dello spazio delimitato da aree cromatiche: rosa per i muri della zona off-limits dei camerini, azzurro per la cabina di regia. L’allure anni Cinquanta, con i cartelli alle pareti che proibiscono agli «italiani di portarsi a casa le ballerine», è forse ciò che più rende speciale la sede. Certo, oggi il Crazy Horse è molto cambiato e si apre al mondo. «È un brand forte con una solida tradizione che ruota intorno all’universo della donna, della creatività artistica — racconta ancora la direttrice Andrée Deissenberg —. Il nostro proposito è restare svegli, in sintonia con il pubblico, far evolvere la proposta artistica e la compagnia. Lavoriamo con nuovi creatori, registi, artisti fissi o invitati, come lo stilista Christian Louboutin o il coreografo Philippe Decouflé. È cambiata anche la politica del Crazy Horse, che fino al 2010 era una compagnia stabile: da quattro anni ha cominciato ad andare in tournée per il mondo. A Milano vedrete «Forever Crazy», il «best of» del repertorio parigino che mescola numeri storici a quadri moderni. Un’ora e mezza di effervescenza, colore e leggerezza, bon bon e joie de vivre».