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 2014  giugno 20 Venerdì calendario

IL GIUDICE: «LA LASCIÒ MORIRE IN QUEL CAMPO HA INDOLE MALVAGIA E PRIVA DI UMANA PIETÀ»

[3 pezzi] –

DAI NOSTRI INVIATI BERGAMO — Era lì anche nei giorni precedenti. Girava intorno alla palestra, forse aspettava proprio lei. Sono i dati forniti dalle celle telefoniche a fornire nuovo sostegno all’impianto dell’accusa contro Massimo Giuseppe Bossetti di aver ucciso Yara Gambirasio. E a convincere il giudice Ezia Maccora della necessità di emettere nei suoi confronti l’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Anche perché gli contesta una nuova aggravante collegata al fatto che «Yara era in condizioni di minorata difesa», non poteva sfuggire alla furia dell’uomo. La motivazione è lapidaria: «Le esigenze cautelari sussistono avuto riguardo alla gravità intrinseca del fatto connotato da efferata violenza e dalla personalità di Bossetti, dimostratosi capace di azioni di tale ferocia posta in essere nei confronti di una giovane e inerme adolescente abbandonata in un campo incolto ove per le ferite e per ipotermia ha trovato la morte. Una condotta particolarmente riprovevole per la gratuità e superfluità dei patimenti cagionati alla vittima, con un’azione efferata, rivelatrice di un’indole malvagia e priva del più elementare senso di umana pietà». E ancora: «Pur trattandosi di soggetto incensurato, la mancanza di freni inibitori dimostrata rende la misura in carcere l’unica adeguata», anche tenendo conto del «pericolo di reiterazione di reati della stessa indole o comunque commessi con violenza se si considera che ad oggi non si conoscono le ragioni che hanno portato Bossetti a sfogarsi su una giovane ragazza che non si sa se conosceva e se sulla stessa aveva già da tempo posto la sua attenzione».
Il Dna e il cellulare
Bastano undici pagine al giudice per avvalorare l’impianto accusatorio e le verifiche effettuate dai carabinieri e della polizia. Soprattutto per confermare l’esistenza di una prova regina come quella del Dna. Nessuna valenza viene attribuita alla difesa di Bossetti che si proclama innocente, perché «le sue complessive dichiarazioni non sono idonee a scalfire l’indizio principale e cioè la traccia biologica ritrovata sugli indumenti della vittima riconducibile alla persona dell’indagato, non essendovi elementi in atti o prospettati dalla difesa che evidenziano dubbi sulla validità del metodo scientifico adottato per prevenire a tale risultato e possibili errori metodologici nell’estrazione della traccia e nella successiva comparazione».
E in questo quadro viene inserito l’aggancio del cellulare alla cella che si trova nell’area dove Yara è stata portata via. Secondo il giudice «tale ultima circostanza assume rilievo in una valutazione globale e non isolata dagli indizi a carico. Perché se è possibile che il suo cellulare abbia agganciato la cella di Mapello alle 17,45 del 26 novembre 2010 perché per rientrare a casa dal lavoro transitava di fronte al centro sportivo di Mapello (come dichiarato nel corso dell’interrogatorio), se dalla valutazione isolata dell’inizio si passa a quella globale e si collega tale dato a quelli fin qui illustrati, cioè il Dna e il lavoro nel settore edile, la circostanza che il cellulare dell’indagato abbia agganciato la cella di Mapello conferma il quadro probatorio a suo carico in quanto è certo che Bossetti la sera del 26 non si trovava in un luogo diverso da quello in cui è scomparsa Yara».
Le «incongruenze» di Bossetti
Nell’ordinanza Maccora si sofferma anche sulle dichiarazioni del presunto assassino, su quelle che definisce «incongruenze nel racconto». E riporta quello che pare come una vera e propria critica al papà della vittima. Scrive il giudice: «Bossetti sostiene che non ha mai conosciuto Yara Gambirasio e in un’occasione ha incontrato per lavoro il padre Fulvio Gambirasio quando era sul cantiere di Palazzago nel periodo in cui la figlia era scomparsa. Ha anche aggiunto che se fosse successo a sua figlia non avrebbe avuto neanche la forza di continuare a lavorare».
Ed ecco i dubbi sulla ricostruzione offerta ieri nel corso dell’udienza, dopo che per due volte si era avvalso della facoltà di non rispondere: «Qualche incongruenza nel racconto si riscontra quando Bossetti afferma di ricordare i suoi movimenti la sera del 26 novembre 2010, perché proprio quella sera aveva visto di fronte al centro sportivo di Brembate dei furgoni con delle grosse parabole e di essere stato attratto da tale presenza. Ha poi precisato di non essere sicuro che il giorno fosse il 26 novembre, potendo essere il 27. Affermazione che andrà verificata dato che la denuncia di scomparsa avviene la mattina del 27 novembre, quindi difficilmente tali furgoni dotati di parabole possono essere collegati a mezzi di telecomunicazioni presenti».
Maddalena Berbenni e Fiorenza Sarzanini


BOSSETTI RESTA IN CELLA: INDIZI GRAVI E PRECISI –

DAL NOSTRO INVIATO BERGAMO — I sigilli alla casa di via Piana di Sopra chiudono una giornata che si era aperta con le prime parole pronunciate dal suo proprietario.
«Intendo rispondere». Nella sala colloqui del carcere di Bergamo, un casermone perso tra prati e comprensori scolastici appena fuori dalla circonvallazione, Massimo Giuseppe Bossetti teneva le mani in vista sul tavolo, come uno studente all’esame decisivo. La sua scelta è stata una piccola sorpresa, dopo due interrogatori rifiutati avvalendosi della facoltà di non rispondere.
Il colloquio con giudice per le indagini preliminari e pubblico ministero non è durato poi molto, un’ora al massimo, giusto il tempo di affrontare le domande sui punti che a giudizio degli inquirenti rendono debole la sua posizione. «Sono innocente. Non so spiegarmi perché il mio Dna sia finito sugli indumenti di Yara Gambirasio. La sera in cui lei venne uccisa ero a casa con la mia famiglia, come sempre. Il mio telefono è stato spento a lungo per la semplice ragione che era scarico e solo in seguito è stato messo in carica. Apprendo solo ora di essere figlio illegittimo. Non avevo mai incontrato Yara. Ho conosciuto suo padre in un cantiere dove lavoravamo entrambi, ma solo dopo i fatti in questione».
Nell’estrema sintesi fatta dal suo avvocato Silvia Gazzetti a beneficio dei giornalisti in attesa è già presente una linea di difesa all’insegna del muro contro muro. Gli investigatori non si aspettano improvvisi cedimenti da parte dell’indagato, descritto come una persona molto fredda e lucida, molto presente a se stessa anche nella tempesta che ha sconvolto la vita della sua famiglia. L’accusa porta a casa il primo risultato e una bacchettata sulle dita. Il colpo di scena non arriva, Bossetti resta in carcere. La motivazione è lapidaria. «Gli elementi raccolti a carico dell’indagato sono precisi e concordanti, sussistono gravi indizi di colpevolezza».
Ma il fermo che lunedì scorso lo ha privato della libertà non aveva ragion d’essere, non era legittimo. Il pubblico ministero avrebbe dovuto subito procedere con la richiesta di arresto. «Dagli atti non si evince alcun elemento concreto e specifico dal quale desumere il pericolo di fuga. Si tratta infatti di soggetto regolarmente residente in Italia ove vive il suo nucleo familiare ed i figli minori e dove svolge attività lavorativa, che non si è allontanato dopo l’omicidio avvenuto nel 2010 ed è rimasto in loco durante tutte le indagini e nonostante la risonanza mediatica delle stesse, tanto che i militari chiamati a eseguire il fermo lo hanno trovato presso il luogo di lavoro. Non si è allontanato neanche dopo che la madre nel luglio 2012 è stata sottoposta al prelievo per l’esame del Dna e da ultimo dopo che i militari lo hanno sottoposto a controllo tramite alcoltest per effettuare il prelievo genetico che è stato utilizzato per la comparazione, con esito positivo, con la traccia biologica trovata sul corpo della vittima».
La sostanza delle cose non cambia. L’elenco delle «ragioni» di Bossetti, scritto da un giudice terzo, rende chiaro quanto la partita tra accusa e difesa possa rivelarsi aperta, salvo ulteriori svolte. A quanto pare ci sarà un processo fortemente indiziario, destinato a dividere l’Italia tra colpevolisti e innocentisti, sostenitori delle indagini tecniche ai quali si opporrà il partito dei nostalgici di Maigret.
La crepa tra i due fronti si sta allargando ogni giorno che passa. I segni sono già evidenti sui luoghi di questa storia, dove vicini di casa, parenti, semplici conoscenti, hanno superato l’iniziale onda colpevolista per tornare a un esercizio del dubbio basato sulla conoscenza diretta del presunto Ignoto 1.
«Non è per una gocciolina di sangue che si può mettere in galera una persona. Fino a quando non lo condannano, non ci credo». La signora Maria Locatelli dice che «il signor Massimo» resta un papà solo più apprensivo degli altri. Non vuole che le sue figlie piccole giochino sulla strada che passa accanto all’ingresso posteriore della sua casa di Piana, la frazione di Mapello dove abita dallo scorso inverno. Preferisce che restino «in contrada», ovvero in via Piana di Sopra, il sentiero stretto tra due legnaie che corre proprio davanti all’abitazione. Adesso i sigilli hanno chiuso anche un tratto di quel passaggio. «Immobile sottoposto a sequestro penale su disposizione della procura della Repubblica» si legge sulla porta di casa.
Marco Imarisio


«LA SCIENZA HA SBAGLIATO MASSIMO NON È UN KILLER ED È FIGLIO DI MIO MARITO» –

Domani suo figlio confessa e dice: sì, ho ucciso io Yara. Lei che cosa fa?
«Non ci credo. Dovrei guardarlo in faccia per capire se dice la verità. Ma non può accadere, perché non è vero».
Due test del Dna indicano che non è figlio di suo marito ma di Giuseppe Guerinoni, ed è Ignoto 1, il presunto killer. Le sue parole dicono l’esatto contrario.
«Per gli investigatori è così. Per me no, al cento per cento. Non sono mai stata con Guerinoni».
Ester Arzuffi, 67 anni, vuole raccontare la sua verità. È la mamma di Massimo Giuseppe Bossetti, in carcere con l’accusa di aver ucciso la bambina di Brembate Sopra. Ester guarda dritto negli occhi quando parla: «Mi chieda pure, io rispondo perché non ho niente da nascondere». Capelli neri con la frangia, unghie perfette laccate di rosso, maglia azzurra con le rose, pantaloni a sigaretta beige e ai piedi sandali chiari con le zeppette adornati di piccole borchie. Parla nello studio degli avvocati Benedetto Maria Bonomo, Jacopo Bonomo e Sara Scarpellini, a Bergamo. «La madre ci ha chiesto di interessarci della difesa del figlio, ma visto l’impegno su casi come Mercadante e Cantamessa, nell’immediato non saremmo in grado di dedicare il tempo necessario anche a questo. Per ora ci occupiamo della tutela dell’immagine della signora, che rompe il silenzio per dare dimensione alla sua dignità».
Lunedì è arrivata la svolta sull’omicidio di Yara. E la sua famiglia è stata sconvolta.
«Ero in clinica da mio marito. Non sta bene. Alle 19.15 mi hanno chiamato e hanno detto che io, mia figlia e suo marito dovevamo correre in questura. Mentre stavamo andando, mio genero ha ricevuto una telefonata. Gli hanno detto: “Hai visto che tuo cognato è stato arrestato per Yara?”. Uno shock. Siamo rimasti in questura fino alle 5 del mattino».
Sulla bilancia, da un lato ci sono due test del Dna dall’altro le sue parole. È una situazione incredibile...
«Lo so, lo so. Che cosa vuole che le dica, che menta? A meno che il mio cervello non abbia resettato tutto, questa è la verità».
Sta dicendo che la scienza ha sbagliato?
«Sì. Ne sono la prova. So che vado alla gogna, che mi criticheranno, ma è così».
Però lei ha conosciuto Guerinoni.
«Sì, vivevo a Ponte Selva come lui. Non lo nascondo. Ma era solo una conoscenza. Mio marito aveva chiesto a lui e a Vincenzo Bigoni di portarmi al lavoro, in auto, alla Festi Rasini, perché già andavano in zona. Poi la sera tornavo in autobus. Ma tra conoscere una persona e avere intimità con lei ce ne passa».
Poi è andata via dalla Valle Seriana e vi siete trasferiti a Brembate Sopra, dove abita la famiglia di Yara.
«Guardi che non sono scappata per fuggire da qualche scandalo, come qualcuno scrive. Vuol sapere davvero come è andata? Mio marito voleva cambiare lavoro, quindi ci siamo messi in macchina e siamo andati alla ricerca di un altro posto. L’abbiamo trovato alla Filco di Brembate Sopra. Nel giro di una settimana abbiamo cambiato casa».
Era incinta dei due gemelli?
«Ma no. Ci siamo trasferiti nel 1969, sarà stato marzo o aprile, e loro sono nati a ottobre del 1970, per altro con un mese di anticipo. Mi dice come possono essere figli di Guerinoni? Vede che le date e altre cose non tornano?».
Potrebbe aver mantenuto contatti con le persone della Valle.
«No, invece li ho interrotti».
Poi è arrivata la notizia che l’assassino della bambina è il figlio di quel Guerinoni che lei aveva conosciuto.
«L’ho sentito in tv. Seguivo il caso della bambina, sono un’appassionata di “Chi l’ha visto?”. L’ho riconosciuto dalla foto».
Quindi in famiglia parlavate di Yara?
«Sì, se ne parlava, perché abitava a Brembate Sopra».
E suo figlio che reazioni aveva?
«Non ho mai captato nulla».
Cambiamenti nel periodo della scomparsa?
«Nulla di nulla».
Una mamma potrebbe voler difendere a tutti i costi il figlio.
«Si può anche pensare. Ma Massimo non ha fatto niente, davvero».
E se avesse notato qualcosa e dubitato di lui, che cosa avrebbe fatto?
«Con il carattere che ho, se lo avessi visto lì fisso a guardare i servizi sulla bambina e avessi dubitato di lui, gli avrei detto: “Vai dai carabinieri”. Lo avrei trascinato».
Che cosa dice sua figlia?
«Quella sera in questura le ho detto che non è vera la questione del padre. Lei mi ha risposto: “Ma mamma, ti credo”».
Però, a parte la questione «figlio di Guerinoni», un test esclude che i gemelli siano di suo marito.
«Allora che cosa facciamo? La risposta è quella di prima. Sono consapevole di che cosa indica il Dna, ma dico che non è vero».
Sua nuora, però, crede alla scienza.
«Lo so e questo mi ha ferito. Faceva così — alza le mani ai lati del volto —: “Ester, dovevi dirmelo, dovevi diiiirmelo”. Le ho risposto la stessa cosa: “La verità è un’altra”».
Poi c’è la storia del nome. Massimo Giuseppe come Giuseppe Guerinoni? E Laura Letizia, come Laura, moglie di Guerinoni?
«Macché. È stato mio padre a dirmi: “Chiamalo come me”. Volevo chiamare la gemella Nadia, invece mi è uscito di getto Laura e Letizia come mia zia».
Si sente additata?
«No, non ne ho la percezione. Una persona mi ha anche detto che i genitori di Yara sono andati dal parroco e gli hanno detto che sono vicini alla nostra famiglia. Sono brave persone. Prima o poi andrò a trovarli e un abbraccio glielo devo dare».
E lei a mamma Maura e papà Fulvio che cosa vuole dire?
«Che mi spiace per la perdita di loro figlia. Li capisco perché sono mamma e sto soffrendo anche io».
A suo figlio?
«Gli mando un abbraccio. Voglio guardarlo negli occhi e dirglielo: “Non sei figlio di quell’altro”».
Giuliana Ubbiali