Hillary Rodham Clinton, Corriere della Sera 20/6/2014, 20 giugno 2014
BILL E CHELSEA LA MIA VITA NON SOLO DI DOVERI
«Il senso della vita risiede proprio nel compiere simili scelte,e il modo in cui le affrontiamo definisce la nostra identità». La sconfitta contro Obama nelle primarie democratiche e poi la loro amicizia, i viaggi come capo della diplomazia americana in 112 Paesi, l’affetto per Bill e per Chelsea. Hillary Rodham Clinton racconta in un libro i suoi quattro annida segretario di Stato al fianco di Obama. Il Corriere della Sera anticipa alcuni brani. Nel libro le idee di Hillary sulle priorità e sulle scelte che il suo Paese deve compiere. «Negli ultimi anni, i momenti di tranquillità sono stati pochi, e adesso voglio assaporarli. Il tempo di fare un’altra scelta difficile arriverà anche troppo presto».
LE SCELTE DI HILLARY –
«Ciascuno di noi si trova di fronte a scelte difficili». Inizia così il libro di Hillary Rodham Clinton, che racconta i suoi quattro anni da segretario di Stato al fianco di Obama. «Il senso della vita risiede proprio nel compiere simili scelte, e il modo in cui le affrontiamo definisce la nostra identità». Il libro esce in Italia, pubblicato da Sperling & Kupfer (780 pagine, 23,50 euro). Il Corriere ne pubblica alcuni estratti. Hillary racconta la sconfitta contro Obama nelle primarie democratiche e poi la loro amicizia, i viaggi come capo della diplomazia Usa in 112 Paesi, l’affetto per Bill e per Chelsea. Ci sono le sue idee sulle priorità e sulle scelte che il suo Paese deve compiere. Insomma, un manifesto per l’America. Alla fine resta una domanda: parte da qui la corsa di Hillary alla Casa Bianca nel 2016?
SARKOZY, SILVIO E IL DOVERE DI AGIRE –
Alla fine, verso le dieci di sera, Jibril si presentò al mio albergo accompagnato da Bernard-Henri Lévy, che aveva aiutato a organizzare l’incontro. A prima vista, era difficile capire quale dei due fosse il ribelle, e quale il filosofo. Basso di statura, stempiato, con gli occhiali e un’aria seria, Jibril sembrava più un tecnocrate che un rivoluzionario. In netto contrasto con lui, Lévy era un tipo appariscente e fascinoso, con lunghi capelli ondulati e la camicia aperta fin quasi all’ombelico... Restai molto colpita dai modi eleganti di Jibril e dal rispetto che suscitava la sua persona, soprattutto trattandosi del rappresentante di un consiglio di rivoltosi sull’orlo dell’annientamento... Il Consiglio per la Sicurezza nazionale era ancora diviso sull’ipotesi di un intervento. Alcuni, comprese l’ambasciatrice all’Onu, Susan Rice, e l’assistente del Consiglio, Samantha Power, sostenevano che, avendone la possibilità, era nostra responsabilità proteggere i civili e prevenirne l’eccidio.
Il segretario della Difesa Gates era assolutamente contrario. Era un veterano dei conflitti in Iraq e Afghanistan, e realista sui limiti del potere americano, dunque non riteneva che i nostri interessi in Libia giustificassero il sacrificio. Sapevamo
tutti che le conseguenze di un intervento potevano rivelarsi imprevedibili. A quel punto, però, i blindati si trovavano ad appena 160 chilometri da Bengasi, e stavano accorciando in fretta le distanze. Ci trovavamo davanti alla prospettiva di una catastrofe umanitaria, con un numero incalcolabile di vite a rischio. Se volevamo impedirlo, bisognava agire subito...
Poi, prima ancora dell’inizio della riunione ufficiale, Sarkozy prese da parte me e il premier inglese, David Cameron, e ci confidò che gli aerei da guerra francesi erano già in volo verso la Libia. Quando scoprirono che la Francia era partita prima del via, gli altri Paesi si inalberarono. L’allora presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi, caparbio e smanioso
di protagonismo quanto Sarkozy, si dimostrò particolarmente indignato. Vige una convinzione informale secondo cui alle vecchie potenze coloniali spetterebbe il diritto di assumere il comando nella risoluzione delle crisi nei loro ex possedimenti.. Nel caso della Libia, ex colonia italiana, Berlusconi riteneva che la prima linea spettasse all’Italia, non alla Francia. Data la sua posizione strategica nel Mediterraneo, la penisola offriva una naturale pista di lancio per gran parte delle incursioni aeree in Libia, e aveva già aperto una serie di basi ai jet alleati. Sentendosi messo in ombra da Sarkozy, Berlusconi minacciò di abbandonare la coalizione e sbarrare l’accesso alle basi aeree italiane. Suscettibilità a parte, il disappunto italiano e di altri Paesi era giustificato.
GUIDARE L’AMERICA? ORA MI GODO BILL –
Il presidente mi chiese di raggiungerlo nel suo ufficio, in testa all’aereo. Ero seduta di fronte alla grande scrivania di legno, pronta ad affrontare le complesse questioni diplomatiche... Le situazioni che avevamo visto e affrontato insieme ci avevano aiutati a comprenderci più a fondo, a conoscere meglio noi stessi e il mondo, come mai avremmo potuto fare prima. Eppure, nonostante tutti i momenti che avevamo condiviso, non mi aspettavo ciò che stava per dirmi. «Saresti disposta a rimanere in carica, come segretario di Stato?» mi chiese il presidente. Fin da quando avevo accettato l’incarico, mi ero detta: «Un solo mandato, non di più»... Invece, proprio come quattro anni prima, sentii il richiamo del «cromosoma del servizio»... Quando è il presidente degli Stati Uniti a chiederti di assumere un incarico, come puoi rispondergli di no? E poi c’erano molte faccende incompiute. Il summit in Cambogia e il conflitto di Gaza erano due esempi. Che cosa sarebbe capitato alla democrazia birmana? E ai nostri negoziati segreti con l’Iran? Come avremmo contrastato la sfida sempre più minacciosa della Russia di Putin? Ma la diplomazia è una gara di staffetta, e io ero vicina al termine del mio tratto di pista. «Signor presidente, mi dispiace, ma non posso accettare»... Qualche tempo fa, io e Bill abbiamo fatto una lunga passeggiata, con i nostri tre cani, vicino a casa. L’inverno era stato insolitamente lungo, ma stava infine spuntando la primavera. Camminavamo e parlavamo, continuando una conversazione iniziata quarant’anni fa alla facoltà di legge di Yale e mai interrotta. Entrambi sappiamo che mi aspetta una decisione importante. Ho già affrontato una campagna elettorale e so bene quanto sia impegnativa su tutti i fronti: non soltanto per il candidato, ma anche per la sua famiglia. Nel 2008 ho perso, e so che non c’è niente di sicuro, e non si può dare nulla per scontato. So anche che le domande più importanti che un candidato deve porsi non sono: «Vuoi diventare presidente?» e nemmeno: «Sei in grado di vincere?», ma semmai: «Qual è la tua visione per il futuro?»; «Sei in grado di guidare l’America in quella direzione?». La vera sfida è riuscirci senza dividere il Paese e rinnovando il «sogno americano». Quella è l’asticella da superare, ed è molto alta.
In definitiva, ciò che accadrà nel 2016 determinerà il futuro che gli americani desiderano per se stessi e per i loro figli e nipoti... Qualunque sia la mia decisione, sarò sempre grata di aver avuto l’opportunità di rappresentare l’America nel mondo... E la mia famiglia si prepara ad accogliere una nuova vita, un altro americano che merita il futuro migliore che possiamo offrirgli. Per oggi, voglio soltanto distendere le gambe e godermi la primavera. Dappertutto intorno a me c’è la vita che si rinnova. Negli ultimi anni, i momenti di tranquillità sono stati pochi, e adesso voglio assaporarli. Il tempo di fare un’altra scelta difficile arriverà anche troppo presto.