Michele Ainis, Corriere della Sera 20/6/2014, 20 giugno 2014
L’ORTICELLO DELLE REGIONI
Evviva la riforma, purché non sia una controriforma. Attenzione: sta per succederci con la revisione del Titolo V. Dove il governo Renzi era partito lancia in resta, recuperando lo spazio perduto dello Stato, allargando quello dei Comuni, e per conseguenza sottoponendo a una bella cura dimagrante le Regioni. Con il sostegno dell’opinione pubblica (6 italiani su 10 le detestano, dice l’Istat). Ma soprattutto con il conforto dei fatti, o meglio dei misfatti. Perché la spesa regionale è un’idrovora che ha succhiato 90 miliardi in più nell’arco di un decennio. Perché specularmente sono cresciute a dismisura le tasse locali (del 138% fra il 1995 e il 2010, secondo la Cgia di Mestre). E perché non ne abbiamo ricevuto in cambio maggiori servizi, bensì piuttosto disservizi. Oltre che una marea di scandali, dato che negli ultimi tempi le inchieste giudiziarie hanno chiamato in causa 17 Regioni (su 20) e più di 300 consiglieri regionali. Al confronto, le Province sono verginelle. Noi invece abbiamo deciso di mandare al patibolo le vergini, santificando le matrone.
Questione di gusti, per carità. Ma prima di riportare la matrona all’onore degli altari, bisognerà cambiarle l’abito. Quello che le cucì addosso la riforma del 2001, giacché è da quel momento che le Regioni hanno perso la ragione. Tutta colpa di un’ubriacatura di competenze e di poteri, anche su argomenti d’interesse nazionale, come l’energia, la scuola, l’ambiente, la rete dei trasporti, il commercio estero, la comunicazione. Da qui lo scialo, da qui un estenuante tira e molla davanti alla Consulta, per disputarsi palmi di terreno con lo Stato.
Anche perché quella riforma era chiara quanto una notte invernale. Prendiamo il caso delle attribuzioni regionali sul lavoro, questione che interessa tutti gli italiani. Nel 1947 l’unica materia lavoristica assegnata dai costituenti alle Regioni fu l’istruzione artigiana e professionale. Nel 2001 i ri-costituenti aggiunsero la «tutela e sicurezza del lavoro», e vattelappesca dov’è la differenza fra queste due parole. Oltretutto il lavoro non esprime una materia, come quelle che si studiano agli esami. No, è l’oggetto d’una politica pubblica. Ma le politiche del lavoro, per essere efficaci, devono comprendere gli ambiti più vari, dal regime fiscale delle imprese alla tutela dei brevetti, dalla semplificazione burocratica alla promozione dell’export, dalla ricerca tecnologica al costo del lavoro. Se invece costruisco steccati fra lo Stato e le Regioni, ciascuno con il suo orticello da curare, la pianta del lavoro non può crescere, crescerà soltanto il contenzioso.
Opportunamente, il testo diffuso dal governo a fine marzo affiancava al concetto di materia regionale quello di «funzione». Introduceva la clausola di supremazia in favore dello Stato. Si sbarazzava della potestà legislativa concorrente, fonte di pasticci e di bisticci. Restituiva interi settori alla compagine statale. Modellava il Senato con una rappresentanza paritaria delle Regioni e dei Comuni. Ma è ancora così? Nel nuovo Senato, a quanto pare, i sindaci saranno appena un quarto del totale. E a leggere i sorrisi che distribuisce Calderoli, le competenze delle Regioni — da residuali — tornano centrali. Vero, nessuno può riscrivere la Costituzione in solitudine. Da qui l’esigenza d’annacquare il proprio vino per soddisfare il palato degli altri commensali. Purché il vino non diventi acqua colorata.