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 2014  giugno 17 Martedì calendario

IL PIANO DI FASSINO E RENZI PER AVERE IL TESORO DEGLI EX-DS


Ora che Matteo Renzi ha i voti e il controllo pieno sul Partito democratico gli manca solo una cosa: il patrimonio. Quando è nato il Pd, nel 2007, il grosso dei beni (e dei debiti) sono rimasti alle formazioni che lo avevano fondato, cioè Democratici di Sinistra e Margherita. Dei post-democristiani abbiamo saputo molto, di come i soldi dei rimborsi elettorali andavano a finanziare singoli dirigenti, il tesoriere Luigi Lusi è finito in carcere. I Ds erano ricchi e indebitati, lo storico tesoriere Ugo Sposetti e il presidente Piero Fassino hanno costruito un muro giuridico che ha tenuto il ricco patrimonio (eredità comunista) lontano dal Pd. Perché non si sa mai, meglio evitare di mettere in comune i beni in un matrimonio con durata incerta. In questi anni Sposetti ha amministrato quel tesoro di oltre 2mila immobili (circolano anche leggende su azioni, obbligazioni e opere d’arte di cui si sono perse le tracce, valore da mezzo miliardo di euro) come se il Pd attuale non avesse alcun diritto a toccarlo. Ma adesso qualcosa è cambiato.
I segnali sono due: Renzi che dichiara di voler rilanciare il marchio delle Feste de l’Unità e la nomina a presidente di Matteo Orfini, esponente di una mai rottamata (per resistenze e convenienze reciproche) cultura diessina nel partito. Dopo aver conquistato ed esposto in assemblea il 40,8 per cento, Renzi pare avere forza per fondere davvero le due anime democratiche. E mettere le mani sulla cassa. L’attuale tesoriere Francesco Bonifazi ne avrebbe molto bisogno, avendo appena chiuso un bilancio con un rosso di oltre 10 milioni e parecchi dipendenti in cassa integrazione. L’irriducibile Sposetti oppone resistenza: “So che puntano a questo, conosco le idee di Fassino, se vogliono discutere io sono pronto, ma devono ricordarsi che mi hanno lasciato una montagna di guai quando è nato il Pd”, dice al Fatto. Ma l’altro erede legale dei Ds, l’ultimo segretario Piero Fassino, è uno dei maggiori sostenitori di Renzi (il premier è anche tentato di indicarlo come commissario europeo). E quindi in queste settimane è stato raggiunto un accordo, ancora segreto, tra il sindaco di Torino e il segretario del partito: gli immobili che furono dei Ds devono entrare nella disponibilità almeno formale del Pd che ha bisogno di usarli come garanzia per ottenere credito dalle banche (prestare soldi ai politici, in un’epoca di rimborsi elettorali in calo, è sempre meno allettante). Contattato dal Fatto, il sindaco torinese non ha risposto. Non è facile ma neppure impossibile: gli oltre 2mila immobili sono stati sparpagliati sul territorio, affidati a fondazioni locali imbottite di politici di un’altra epoca, spesso nominati a vita, che su carta tutelano la memoria storica del Pci e nei fatti tengono il suo patrimonio al riparo dai creditori (il metodo Sposetti è perfetto: i debiti in capo ai Ds nazionali e i beni affidati alle federazioni locali). Fassino, Renzi e Bonifazi hanno una via abbastanza semplice: rifare il trucco di Sposetti in senso inverso. Accorpare le fondazioni locali in un unico ente che poi possa, in qualche modo, mettere gli immobili nella disponibilità del Pd così da rassicurare le banche creditrici. Un’operazione complessa, ma l’intenzione politica non manca. Complessa perché i vecchi creditori tornerebbero alla carica.
A ottobre, per esempio, dovrebbe esserci il nuovo confronto tra presidenza del Consiglio e banche creditrici della vecchia Unità. La storia è ingarbugliata: il quotidiano di partito, prima della liquidazione, era pieno di debiti. Nel 1999 una provvidenziale norma del governo D’Alema (guidato, guarda caso, da un ex direttore dell’Unità) istituisce una parziale garanzia pubblica su quel debito. Risultato: oggi c’è un contenzioso tra le banche creditrici (che vantano spettanze per quasi 200 milioni di euro) e palazzo Chigi. “Abbiamo ottenuto tre decreti ingiuntivi dal tribunale di Roma, poi ovviamente l’avvocatura di Stato si è opposta”, spiega l’avvocato Girolamo Bongiorno che rappresenta il gruppo di banche. Se ne riparla a ottobre. Ma nel frattempo potrebbe verificarsi una situazione paradossale: se Renzi riesce a mettere le mani sul patrimonio dei Ds, la presidenza del Consiglio potrà opporsi alle banche con maggiore efficacia suggerendo di rivalersi sugli immobili riemersi dalle nebbie locali. Viceversa, il premier può cedere agli istituti di credito saldando i debiti pregressi – almeno in parte – con le fideiussioni a spese del contribuente italiano, lasciando intonsa la ricchezza del partito. Renzi sta facendo leva sull’inchiesta Mose per dare il colpo definitivo all’intreccio tra imprese, coop rosse e lato sinistro del partito. Grazie al lavoro dei pm, il segretario democratico ha la strada spianata e può puntare anche al tesoro degli ex comunisti, visto che i più autorevoli custodi di quella tradizione sono decaduti o nei guai con la giustizia. Resta solo un ultimo reduce a difendere la trincea: Ugo Sposetti, col suo baffo sovietico. E non è un ostacolo da poco.

Stefano Feltri e Carlo Tecce, Il Fatto Quotidiano 17/6/2014