Alessio Schiesari, Il Fatto Quotidiano 19/6/2014, 19 giugno 2014
JIHAD & CO. FARE SOLDI CON I MASSACRI – Un report annuale con statistiche, grafici, illustrazioni e una dettagliata spiegazione delle attività per convincere i potenziali donatori ad mettere mano al portafoglio
JIHAD & CO. FARE SOLDI CON I MASSACRI – Un report annuale con statistiche, grafici, illustrazioni e una dettagliata spiegazione delle attività per convincere i potenziali donatori ad mettere mano al portafoglio. Nulla di strano se a farlo è un’ong come Save the children o Greenpeace. In questo caso però a stilare il documento è lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante, più conosciuto con l’acronimo Isis, la più potente e ricca organizzazione terroristica al mondo. Mille omicidi, 4 mila ordigni esplosi, 10 mila azioni terroristiche e 15 mila effettivi: sono questi i numeri della multinazionale islamista nel 2013. Fare la jihad, per di più in due Paesi diversi, costa un mucchio di soldi, per questo anche i terroristi hanno bisogno di sponsor. Durante i dieci anni dalla sua fondazione, conseguente a una scissione all’interno di Al Qaeda, il gruppo ha trovato i suoi finanziatori in Arabia Saudita, Qatar e Kuwait, dove facoltosi filantropi e gli stessi governi hanno tutto l’interesse a spalleggiare i movimenti estremisti sunniti in chiave anti-sciita. Per questo martedì il presidente iracheno Nuri al Maliki ha tuonato contro gli emiri che sostengono i terroristi a colpi di bonifici. Riad nega e il Dipartimento di Stato ha definito le accuse al proprio alleato in Medio Oriente “offensive”, ma anche gli Stati Uniti sono consapevoli dei movimenti di petroldollari dalle monarchie del Golfo ai miliziani. Un meccanismo che, almeno finché l’Isis faceva la guerra solo a Bashar al-Assad, gli andava benissimo. Ora che hanno portato le loro truppe a 60 chilometri da Baghdad e conquistato l’enorme raffineria di Baiji, la cosa è diventata un problema. In realtà il pressing Usa è partito a inizio anno, quando ha convinto i regnanti sauditi a rimuovere il principe Bandar Bin Sultan – che Baghdad considera l’uomo ponte tra la casa reale e l’Isis – dalla testa dei servizi segreti di Riad, e il Qatar a fermare, almeno ufficialmente, il supporto economico. C’è solo un problema: la mossa Usa si sta rivelando inutile perché è arrivata troppo tardi. Secondo la Cia, Isis ha riserve per 1,5 miliardi di dollari. Buona parte di questo denaro è frutto dei proventi dei pozzi petroliferi nella Siria orientale e di quelli conquistati nel nord dell’Iraq, cui si aggiungono quelli delle rapine (una settimana fa un colpo alla banca centrale di Mosul ha fruttato 429 milioni di dollari) e il pizzo chiesto nelle zone controllate. Secondo il think tank Washington Institute for Near East Policy, buona parte di questi soldi viene spesa per gli armamenti. Il resto viene impiegato in campagne per la conquista dell’opinione pubblica. La vera forza di Isis non è infatti la semplice organizzazione militare: i territori occupati vengono occupati fomentando la ribellione della popolazione sunnita. Ieri, il ministro degli Esteri iracheno Hoshyar Zebari ha invocato l’intervento militare degli Usa per fermare l’avanzata jihadista e non ha escluso che un’analoga richiesta possa essere avanzata anche all’Iran. Alessio Schiesari, Il Fatto Quotidiano 19/6/2014