Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  giugno 19 Giovedì calendario

L’INTERROGATORIO «ERO LÌ DOVE YARA È STATA PRESA MA NON L’HO AMMAZZATA IO»


«Ero lì vicino alla palestra la sera in cui hanno preso la bambina. E allora? Certo che mi trovavo lì. Lo ricordo bene, per forza: ero andato a fare dei lavori in alcune villette della zona. Controllate e vedrete che ho ragione». Usa parole di sfida, Giuseppe Bossetti, prima di scegliere il silenzio davanti al pubblico ministero di Bergamo che lo accusa di essere l’assassino. Ritiene che lo sia, perché c’è il suo Dna su Yara uccisa. E perché quel Dna è rimasto appiccicato sugli slip (tagliati) della piccola; lasciato proprio lì da un orco che ha cercato di violentarla, prima di sferrarle i fendenti (8 almeno) con un taglierino mai trovato. Per poi lasciarla morire in quel campo incolto a 7 chilometri dalla palestra, sotto la pioggia della sera che stava diventando neve. Era il 26 novembre 2010, venerdì. Lo ricordano tutti a Brembate di Sopra. E anche lui, muratore di Piana di Mapello, dice di ricordarlo: «Perché lì vicino alla palestra dove l’hanno presa, io, ci lavoravo Chiaro?». Lo ripete senza dire quali siano queste «villette» che adesso gli investigatori stanno cercando. Lo grida a gran voce, prima di chiudersi in un mutismo reiterato anche ieri. E che, a suo parere, significa respingere l’accusa di avere commesso il crimine dei crimini.
Per il pm Letizia Ruggeri è colpevole del delitto anche per una sfilza di altre ragioni. Indizi che pesano come macigni e fanno a pugni con la presunzione di innocenza. Come il suo cellulare. Alle 17 e 45 del 26 novembre 2010, quando Yara entra nel centro sportivo (a 700 metri da casa) per riportare lo stereo alla maestra di ginnastica, aggancia l’antenna piazzata a ridosso dell’edificio. Giuseppe Bossetti fa una telefonata. Un’ora dopo il telefono fa perdere ogni traccia. Sono i minuti in cui Yara esce dalla palestra, come dirà un testimone ritenuto attendibile. E sono gli stessi istanti in cui anche il telefono di lei non dà più alcun segnale, perché qualcuno glielo strappa dalle mani e toglie la batteria. Mamma Maura la chiamava, ché la cena era ormai servita. Inutile. Il telefono di Bossetti torna a chiamare alle 7 del mattino successivo. Quello di Yara verrà trovato tre mesi dopo smontato, accanto al corpo senza vita. Vicino a quel grumo di terriccio ed erba stretti in pugno, segno di un’ultima e disperata difesa.
Lui, il presunto colpevole, si trincera dietro il silenzio che di diritto gli spetta di scegliere. Ma che non lo salva dalle accuse. Ha taciuto anche quando il pm Ruggeri alle 11 e 40 di ieri si è ripresentata davanti a lui nel
carcere di via Gleno. Un’imponenza di forze: ad accompagnare il magistrato c’erano gli uomini della Mobile guidati nelle indagini dal questore Dino Finolli, i militari dello Sco, del Ros e del Nucleo investigativo. E c’era anche Cristina Cattaneo, l’anatomopatologa consulente della Procura che nei polmoni di Yara ha trovato polveri di calce uguale a quella che usano i muratori come Giuseppe Bossetti. E se chi l’ha rapita e uccisa avesse tentato di tapparle la bocca con le mani macchiate di lavoro? A comporre i tasselli di questa storia nera torna anche la testimonianza di una abitante di via Locatelli (dove c’è la palestra) e rilasciata a poche ore dalla scomparsa di Yara. La donna raccontava di avere sentito un grido provenire da un furgone bianco che sfrecciava nella via la sera del delitto, era una voce femminile. Oggi la donna lo ripete: «Non mi ero sbagliata, ho sentito benissimo, era una voce di donna e veniva da quel furgoncino». A Giuseppe Bossetti è stato sequestrato un furgone bianco.
Stamattina il gip Ezia Maccora proverà a interrogarlo prima di decidere se convalidare il fermo. Tre pagine di dispositivo in cui si contesta l’omicidio aggravato dalla crudeltà e dalle sevizie, oltre al pericolo di fuga. Se Bossetti si deciderà a parlare, si saprà. Intanto i carabinieri sono tornati a setacciare la palestra, anche se non risulta che lui la frequentasse. «Hanno voluto ancora una volta l’elenco di tutti gli iscritti», dice la titolare del centro Veronica Locatelli, «è da lunedì che mi chiedono di controllare gli archivi, ma come ho già detto lui non risulta. Mai vista la sua faccia qui». Si ricomincia a scandagliare i luoghi e i personaggi che ruotano intorno al delitto: da Brembate a Mapello, fino a Terno d’Isola. Chiusa la più imponente caccia all’uomo per mezzo della mappatura genetica dell’intera Bergamasca, si cercano le prove del punto di contatto tra la bambina e il muratore. Tutti ricordano lei come una ragazzina tutt’altro che sprovveduta, con i suoi 13 anni allegri. «Mai avrebbe accettato un passaggio da uno sconosciuto», era il coro del paese. E c’è chi ricorda che essendo stata una ginnasta dai muscoli d’acciaio, difficilmente una mano sola avrebbe potuto caricarla in macchina, tenerla ferma e guidare. Yara si era forse fidata di un volto che in qualche modo incrociava? I suoi genitori non sapevano dell’esistenza di Giuseppe Bossetti. E anche ieri, com’è sempre stato, Fulvio e Maura Gambirasio non si sono fatti vedere in giro. Mentre Brembate rabbrividisce a mano a mano che emergono i particolari sulla fine di Yara . «Giuseppe era qui anche domenica con uno dei suoi cagnolini in braccio», dice l’avventore di un bar di Brembate. Ultimo brindisi con gli amici per il muratore, padre di famiglia esemplare che dal giorno successivo sarebbe diventato l’orco della porta accanto.