Giampaolo Cerri, Panorama 19/6/2014, 19 giugno 2014
OBIETTIVO UN MILIONE DI EURO
Diventare milionari nella crisi? Basta andare all’università. In Gran Bretagna ne sono convinti da quando l’Office for nationals statistics (Ons) ha reso pubblici nuovi dati sulla ricchezza nazionale. «Come fare un milione», ha sparato in prima pagina il Daily Telegraph. Citando l’Istat d’Oltremanica, il giornale scrive che «il 20 per cento di tutti gli adulti che detengono una laurea hanno ora un patrimonio di almeno un milione di sterline (1,25 milioni di euro, ndr)». Non bagattelle: stiamo parlando di 2,4 milioni di persone. Milionari che sono aumentati nel biennio 2010-2012 sul 2006-2008, vale a dire in piena crisi: otto anni fa, alla vigilia del crac Lehman, erano solo il 16 per cento.
E non è solo questione di laurea: gli statistici di Sua Maestà indicano altri fattori di successo: essere di mezza età (è milionario infatti il 16 per cento dei britannici fra 55 e 64 anni); essere sposati e lavorare in proprio, perché il 14 per cento di chi lo fa arriva ai sei zeri di patrimonio. Ma è il dato dei laureati a colpire. Il ministro all’Istruzione, David Willetts, ha infatti chiosato raggiante che «ciò dimostra come sia giusto chiedere ai laureati di ripagare il costo della loro istruzione superiore e come, aumentando il numero di persone che vanno all’università, si diffonderanno ricchezza e opportunità».
Gran Bretagna chiama Italia
L’impennata dei patrimoni dei laureati rischia di ridimensionare il dato della bassa mobilità sociale britannica, studiato dall’economista canadese Miles Corak che, l’anno scorso, aveva messo il fenomeno su un grafico, chiamandolo Curva di Gatsby. Le sue ricerche dimostravano che in quel paese, come del resto in Italia e negli Usa, le fortune personali derivano da quelle paterne, per via ereditaria, nella metà dei casi. Ma proprio questo dato comune spinge al confronto: se i britannici ci somigliano come genesi patrimoniale in un caso su due, perché non potremmo anche noi avere lauree capaci di produrre benessere economico? Perché se l’ascensore sociale funziona male, a Roma come a Londra, in un caso su due chi prende le scale lassù sembra poter volare?
Daniele Checchi, economista della Statale di Milano, che studia il rapporto fra istruzione e svantaggio sociale, mette però in guardia: «Cosa resterebbe dei dati dell’Ons se noi potessimo disaggregare quelli provenienti da Londra?» chiede, osservando che la capitale è un concentrato «di sedi direttive mondiali», dove si guadagna più che altrove. Inoltre «quelle statistiche non distinguono fra ricchezza immobiliare e mobiliare, cioè connessa al valore di capitalizzazione dei titoli posseduti». E da Parigi, dove si occupa di formazione per l’Ocse, un altro economista, Thomas Manfredi, osserva che «quei patrimoni potrebbero essere legati alla parte variabile delle remunerazioni e costituiti da una componente azionaria, quindi influenzati da una ripresa borsistica».
Qui si laureano i futuri milionari
Il punto è che i dati strillati dal Telegraph sono confermati anche dal ranking stilato dalla società finanziaria Wealthinsight, che si occupa di risparmio gestito, insieme al business magazine Spears. La classifica, realizzata a partire da un database di 75 mila milionari in tutto il mondo, mette in fila le 500 università che ne hanno sfornati di più. E fra le prime 100 sventola alta la bandiera dell’Union Jack, con le storiche Oxford e Cambridge, sesta e nona, la London School of Economics, 27a, e poi, a scendere, anche l’Università di Londra, la London Business School, l’Imperial College di Londra. Gli atenei inglesi sono quasi un quinto del totale, secondi solo a quelli degli Stati Uniti. Seguono Francia e Canada. Nelle 100 al top solo due italiane: la Bocconi, con un invidiabile 24° posto, e la Sapienza di Roma, 90a. Nella classifica generale, che Panorama ha potuto consultare, ci sono solo altre sei università tricolori: le milanesi Politecnico (112°) e Statale (169a), Firenze (262), Torino (287) e la Federico II di Napoli (365).
Secondo lo stesso ranking, ingegneria, economia e legge sono le lauree che più si abbinano alla solidità patrimoniale, assieme ai master in business administration (Mba).
Sulle tracce del dottor Benestante
Difficile trovare dati italiani sull’incidenza della formazione universitaria sulla situazione patrimoniale. Qualcosa dice l’annuale rapporto «La ricchezza delle famiglie italiane» curato dalla Banca d’Italia, una ricerca campionaria su un po’ più di 8 mila nuclei, rappresentativi di 22 milioni di famiglie e 27,6 milioni di persone. Una statistica che le distribuisce in base alla ricchezza netta, suddivisa in dieci livelli, da poche migliaia di euro a oltre 533 mila euro, vede i laureati prevalere proprio in quest’ultima fascia: sono il 25,9 per cento contro lo 0,4 che non ha titolo di studio, il 5,2 che ha fatto le elementari, il 5,1 che ha frequentato le scuole medie, il 14,1 di diplomati. Già, ma i milionari quanti sono? Il valore assoluto manca, anche se ci sono certamente i 176 mila superricchi censiti dal World Wealth Report della finanziaria americana Capgemini, che prende in esame i patrimoni sopra il milione di dollari al netto dei valori immobiliari. In ogni caso, ancora pochi per arrivare ai 2,4 milioni dei britannici.
Qualche indizio lo dà l’Istat che nel 2010 indicava il reddito netto medio di chi ha la laurea in 45.531 euro (con punte di 59.758 nel lavoro autonomo), contro i 19.355, i 27.497, i 33.493 di chi ha rispettivamente licenza elementare, media e diploma. E anche AlmaLaurea, il consorzio che riunisce 65 università e monitora la condizione occupazionale dei nostri dottori nella fascia 25-64 anni, individua nel 48 per cento la differenza salariale fra laureati e diplomati, a vantaggio dei primi. Sempre AlmaLaurea, però, osservando la progressione degli stipendi di chi ha fatto l’università nel quinquennio 2008-2013, segnala che gli ingegneri arrivano a 1.708 euro mensili netti, seguiti dai medici (1.646) e degli economisti (1.520): siamo negli anni di crisi, è vero, ma gli stessi del boom dei milionari inglesi.
«Gli inglesi aumentano gli occupati nelle alte qualifiche, quelle molto ben remunerate, proprio dal 2010 al 2012, passando dal 30 circa al 34 per cento» dice il direttore di AlmaLaurea Andrea Cammelli, statistico. C’entra anche il diverso mercato del lavoro, secondo Francesco Venier, vicedirettore della Mib, business school dell’Università di Trieste: «Là è molto più aperto e le nuove tecnologie consentono di remunerare molto più di una volta le performance del singolo».
Manca la quantità più che la qualità
Mercato o no, è anche il sistema che arranca. Cammelli ricorda come «nella fascia 25-34 anni l’Italia abbia il 21 per cento di laureati, mentre la Gran Bretagna il 47». Se si producono più dottori è più facile che siano numerosi anche quelli che arrivano al successo patrimoniale. E il gap non si colmerà a breve: «Entro i prossimi sei anni arriveremo ad avere il 27 per cento di laureati, se va bene» osserva il professore. Paolo Iacci, vicepresidente dell’Associazione italiana direzione del personale (Aidp), sottolinea il ritardo su un’area che spesso produce milionari fra i giovani, quella delle start-up. «Noi segniamo il passo. Parliamo di Caffeina.it come storia di successo, dimenticando che ha solo 7 dipendenti. Le banche hanno paura e il venture capital è rattrappito». Non è un caso che Andrea Vaccari, 30enne veronese, per fare la sua start up, abbia lasciato Milano, dove frequentava ingegneria al Politecnico, e sia volato a S.Francisco. Qui, due anni fa, ha venduto a Facebook la sua Glancee, app che permette di individuare gli amici in prossimità di un certo luogo.
E milionario è diventato davvero.