Norberto Bobbio, La Stampa 19/6/2014, 19 giugno 2014
ROBERTO BOBBIO. DA RAGAZZO SUONAVO IN UN’ORCHESTRINA JAZZ
Esce oggi per Passigli Il mestiere di vivere, di educare, di scrivere, una conversazione di Norberto Bobbio con Pietro Polito, raccolta nel 1999 per i novant’anni del filosofo. Pubblicata allora sulla rivista Nuova Antologia, viene riproposta per la prima volta in volume con una prefazione dello stesso Polito, direttore del Centro Studi Piero Gobetti, che ha affiancato Bobbio negli ultimi anni di vita nel lavoro di riordino della sua biblioteca. Il libro è una lunga confessione che tocca i diversi aspetti del maestro torinese, da quello pubblico, con l’impegno nell’insegnamento e nel dibattito politico, a quello più marcatamente privato. Come negli estratti che qui anticipiamo.
NON SOLO VERDI
Appartengo a una famiglia da parte di madre di musicomani e melomani dilettanti. Nella vecchia casa di famiglia a Rivalta Bormida c’era non solo il pianoforte che mio zio suonava discretamente, ma anche una specie di armonium da salotto che si faceva agire con due pedali ed emetteva suoni simili a quelli degli organi di chiesa. Lo suonavo, avendo cominciato lezioni di piano da bambino, furtivamente. Quando parlo di musica intendo soprattutto l’opera italiana, e quando parlo di opera italiana, intendo non solo Verdi e Donizetti, ma gli autori allora contemporanei, Puccini, Mascagni (L’amico Fritz), Giordano (l’Andrea Chenier) e Catalani (la Loreley). Si leggevano trasferite sugli spartiti per pianoforte con la terza riga per il canto.
Ad ascoltare musica al di fuori dalle pareti domestiche sono stato iniziato subito dopo la prima guerra mondiale, quando riprese la stagione d’opera al Teatro Chiarella, che ora non esiste più, con la Traviata, di cui ricordo ancora il nome (Dolci!) del tenore. Da allora ho riascoltato la commovente vicenda di Violetta non so quante volte. Posso ricantarla dentro di me quasi per intero, sino alla bellissima aria dell’ultimo atto «Addio, del passato...» e al celebre duetto «Parigi, o cara...». [...]
Con alcuni compagni, tra cui il più appassionato di musica era Ginzburg, si facevano lunghe code al Teatro Regio per entrare nei posti non numerati e assistere ai concerti, tra i quali ricordo benissimo le sinfonie di Beethoven dirette da Toscanini, e alla stagione d’opera. Erano gli anni in cui Wagner aveva quasi completamente eclissato Verdi. Ricordo ancora l’enorme impressione che mi fece il Parsifal, cui assistetti, alla fine stanchissimo, in piedi. Da allora il Parsifal, soprattutto l’ultimo atto, è diventato il mio ideale del sublime in musica.
Cominciai a suonare il piano a sei anni, come era abitudine allora nelle case borghesi. L’ho studiato per anni senza raggiungere una perizia tale da convincermi a proseguire. Lo abbandonai quando entrai all’università. Mi esibivo nella festa di mio padre, il 21 giugno, san Luigi. L’ultimo anno il pezzo presentato fu un noto Notturno di Chopin. Erano anche gli anni in cui aveva fatto strepitosamente apparizione il jazz. La prima orchestrina di jazz l’ascoltai insieme con mio fratello a Parigi, dove eravamo andati da soli durante l’esposizione universale del 1925. Con gli amici delle vacanze tra Rivalta e il paese vicino, Orsara, avevamo dato vita a una piccola orchestrina cui avevamo dato il nome di Dahomey Jazz Band, che veniva invitata anche a Torino nelle feste danzanti familiari.
TRA MACISTE E IL WESTERN
Torino è stata all’inizio del secolo sino a dopo la prima guerra mondiale la patria del cinema italiano. Ne eravamo, da ragazzi, orgogliosissimi. Ricordo bene gli studi alla periferia della città, che da tempo sono stati distrutti. I primi film, quindi, che ricordo sono quelli italiani. Tra i più celebri Cabiria, sceneggiato da Gabriele D’Annunzio. Il personaggio che svolgeva il ruolo dello schiavo romano era uno scaricatore del porto di Genova, alto quasi due metri e forzuto, cui era stato dato il nome di «Maciste». Col nome di Maciste recitò film famosi, tra cui subito dopo la guerra Maciste alpino. Tra gli attori drammatici di film, che ora si direbbero dell’orrore, il più famoso era Emilio Ghione, che aveva adottato come nome d’arte Za la Mort, la cui inseparabile compagna per contrasto aveva preso il nome Za la Vie. Degli attori comici i più noti erano Polidor e Cretinetti: la comicità derivava anche dalla accelerazione con cui i movimenti degli attori erano ripresi.
La moda del film americano venne qualche anno dopo, tra il 1920 e il 1930, e il film italiano scomparve. Cominciò allora la passione per i film western, tanto lunghi che venivano divisi in diverse puntate. Ogni puntata terminava con una scena che mozzava il fiato e costringeva a vedere all’inizio della puntata seguente come la situazione si risolveva. Ogni film drammatico veniva chiuso dalla comica finale, di cui il protagonista era allora Ridolini. Esordì in quegli anni un giovane silenzioso, che non rideva mai, e sembrava che nessuna delle gag lo toccassero: diventò noto col nome di Stenterello e celebre col suo vero nome, Buster Keaton. Il cinematografo era l’America, qualche anno prima dell’America dei romanzi che conquistarono il lettore italiano attraverso le traduzioni di Vittorini e di Pavese. [...]
Se ci riferiamo a quegli anni, i film che mi hanno lasciato una più profonda impressione non sono quelli americani, tranne forse, per la straordinaria bellezza e bravura, quelli di Greta Garbo, ma quelli francesi dell’epoca d’oro di attori come Louis Jouvet (che veniva dal teatro) e Jean Gabin. Due film che mi piacerebbe rivedere, Carnet di ballo e Alba tragica. Il più amato in quegli anni A nous la liberté, di René Clair. Non posso però dimenticare lo stupendo film giapponese, che ho visto due volte, L’arpa birmana. Da anni non entro più in una sala cinematografica. L’ultimo film che ho visto è Schindler’s list.
LE AQUILEGIE DEL CERVINO
Devo la mia passione per la montagna a Valeria, che sin da ragazzina si era esercitata, insieme con sua sorella, accompagnate da una guida, a fare qualche difficile arrampicata. Nelle mie vacanze prima con la mia famiglia e poi da solo preferivo il mare. Una delle mie prime gite in montagna la feci con lei nella prima vacanza dopo le nozze, nell’agosto 1943, salendo a un colle in Valsavaranche, di cui ricordo ancora il nome «La Biula», a più di tremila metri. Ho passato da allora tutte le vacanze in Valle d’Aosta, al Breuil, chiamato ora Cervinia, dove abbiamo dal 1953 un piccolo appartamento nel primo deprecratissimo condominio che, seguito successivamente da molti altri, ha sfigurato la conca da tanti artisti celebrata ai piedi del Cervino. Non escursioni, tanto meno ascensioni, ma gite nella giornata. Tutti i giorni: i primi anni anche coi figli, gli ultimi anni soltanto con Valeria. Una bella abitudine cui ho dovuto rinunciare da qualche anno.
Ogni anno le stesse passeggiate, tanto da ricordare a memoria ogni tratto dei sentieri percorsi. Ma non ci siamo mai stancati. Gite senza meta precisa, alla scoperta di stagione in stagione, dei fiori che colorano i prati: prima gli anemoni, che in luglio sono già quasi tutti scomparsi, poi i rododendri, a fine stagione compaiono, specie sull’orlo della strada dove il terreno è stato smosso, cespugli interi di epilodii, a grappoli, col loro bel colore tra il rosso e il viola. C’è un piccolissimo spazio, che si raggiunge con una mezzoretta di cammino, dove crescono quegli elegantissimi fiori di colore celeste, che sembrano ad arte coltivati, le aquilegie. Ogni anno una delle nostre prime passeggiate è l’omaggio alle aquilegie. Pochi sanno dove sono, tanto che avendole decantate in un breve libretto pubblicitario di Cervinia qualcuno ha finito per chiamarle «le aquilegie di Bobbio».
Norberto Bobbio, La Stampa 19/6/2014