Giampaolo Visetti, la Repubblica 19/6/2014, 19 giugno 2014
PIACE AI CONTADINI FA ORRORE IN CITTÀ LA CARNE DI CANE DIVIDE LA CINA
PECHINO
Si avvicina il solstizio d’estate e i contadini di Yulin, nel Guangxi, si preparano alla festa più antica della Cina. Oltre 10mila cani stanno per finire in pentola, cucinati secondo le ricette delle dinastie imperiali: spezzatino, stufato con i litchi, alla brace, in brodo di verdura. Per la gente delle campagne, la carne di cane è una delizia da quindici secoli, come quella di gatto, da arrostire con mais e peperoncino. Anche i cinesi però abbandonano i paesi e rifiutano la civiltà agricola. Nelle città sono ormai emigrati in 700 milioni. Il festival del 21 giugno, la felicità al tempo della fame, finisce così sotto accusa.
Star, intellettuali e avvocati sono sul piede di guerra e pretendono che il partito-Stato «impedisca la strage». In alcune contee i banchetti, per neutralizzare il boicottaggio degli animalisti, sono stati anticipati e consumati in segreto. La mobilitazione dei cittadini, mangiatori quotidiani di pollo e maiale, contro i campagnoli, divoratori annuali di cane e gatto, paralizza il web e imbarazza le autorità. Non che i leader cinesi abbiano bisogno di consenso: è che la guerra sui cani da carne rivela la frattura tra due Cine che non si comprendono più e il potere non sa su quale sia più conveniente puntare.
A Jinhua, nello Zhejiang, il festival del cane in padella è stato annullato per evitare scontri fisici tra le donne-chef dei quartieri e le squadre di protezionisti reclutati a Shanghai. Nelle regioni povere dell’interno invece i funzionari rossi smentiscono di organizzare i banchetti, ma lasciano fare. Da una parte l’istinto di sopravvivenza dell’Asia rurale, che trasforma in specialità la miseria, dall’altra la sensibilità dell’Oriente occidentalizzato, deciso a tutelare le bestie che fanno compagnia. In mezzo il potere di Pechino: abolito il divieto maoista degli animali da appartamento, ha lanciato la Cina nell’era delle proteine di lusso. E adesso? Qual è, si chiede la propaganda, la linea del partito? Il nazionalismo gastronomico di un cane stufato, o la subalternità globalizzata dei brunch a buffet?
Cani e gatti, oltre la Grande Muraglia, sono da sempre pietanze comuni. Orrore destano invece gli occidentali, che macellano conigli e cavalli. Lo scontro sull’abbuffata di Yulin dilaga così da due patrie a due mondi, il cinese e l’americano. Le caffetterie decimano le sale da tè, i fast-food scacciano i banchi del cibo di strada, la cioccolata umilia la dolcezza del fagiolo rosso. E se ai consumatori di città, rinnegato il cane cotto, venisse a noia anche la dittatura e si invaghissero di steak e democrazia? A Pechino filtra dunque prudenza. Il governo promette «lotta a crudeltà, allevamenti clandestini e stragi di randagi», ma un sondaggio certifica che solo il 30% ritiene «inaccettabile mangiarsi il miglior amico dell’uomo». Mediazione estrema: depotenziare il caso facendone una «questione sanitaria», per scongiurare «infezioni da rabbia». È la “via cinese” al futuro: smettere di essere Cina un po’ alla volta, affinché nessuno se ne accorga.
Giampaolo Visetti, la Repubblica 19/6/2014