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 2014  giugno 19 Giovedì calendario

CHI HA PAURA DEI BUU


MILANO
Il rumoroso loggione della Scala deve essere l’incubo del prossimo sovrintendente, se anche l’altro giorno, presentando l’interminabile e perciò soporifero programma 2014-2015, Alexander Pereira ha invocato la generosità dei tradizionali contestatori che si sporgono pericolosamente, per tradizione, dagli ultimi due ranghi di palchi, invincibili signori dei buu e di altri versacci, perché nella prossima stagione siano più clementi, non terrorizzino registi e direttori d’orchestra, non rendano furibondi i cantanti che giurano che mai più metteranno piede nel teatro, per poi ritornarci, ovvio, qualche anno dopo; come Roberto Alagna, che alla prima bordata di fischi, nel 2006, abbandonò un’Aida a metà e che tornerà a novembre per un Werther in forma di concerto diretto dal novantenne Prêtre. Auspicare l’imbavagliamento di circa 200 melomani di cattivo carattere ma sublime passione musicale esigerebbe per senso di equità, anche il fermo di chi al contrario applaude forsennatamente, con grida di giubilo e tutti in piedi per un tempo lunghissimo, come è capitato nelle settimane scorse con Elektra di Richard Strauss, ululati a scena aperta per gli interpreti, frastuono appassionato per il direttore d’orchestra Salonen, una muta prece per il regista defunto Chéreau.
Una Scala senza intemperanze né festosità né scontri né insulti, diventerebbe noiosissima, smorta, sbadigliante, palcoscenico di politici, di stilisti e di anziane bellone. E per fortuna ogni tentativo di normalizzare una tradizione antica (e per esempio nel 1840 fu fischiatissimo Giuseppe Verdi con il suo Un giorno di Regno , tanto che il compositore pensò di cambiar mestiere), non ha avuto successo. Lo stesso Pereira cercò mesi fa di incontrare gruppi di loggionisti che riaffermarono la loro libertà al dissenso. Fu impossibile contattare però i famosi melomani raccolti attorno al crudelissimo blog “Il corriere della Grisi”, né tener fuori dal teatro i misteriosi loggionisti che arrivano in pullman da Parma, luogo mitico del dissenso lirico, dove esiste anche un archivio che ne conserva la storia. Nel 2001 si cercò di chiudere la vendita dei posti in piedi in loggione un’ora prima dell’inizio dell’opera, senza riuscirci. Si mormorò allora che un famoso direttore d’orchestra, amatoodiato, avesse infiltrato sue spie tra i fischiatori per individuarli e cacciarli. Ai tempi della passione vuoi per Callas che per Tebaldi, si organizzarono veri e proprio eserciti di buuisti e di battimanisti, per sostenere la propria diva e umiliare la rivale.
Si mormora che mesi fa sia accaduto qualcosa di simile, fischi contro applausi, per i direttori Gatti e Chailly, candidati possibili alla direzione musicale del teatro, poi assegnata a Chailly.
«Il fischio è la vita del teatro» ha scritto anni fa Sergio Pestelli, però dipende dal fischio. C’è infatti il buu giusto, che all’uscita sul palcoscenico della vittima, alla fine dell’opera, dà rilievo ai suoi errori. C’è il buu malvagio di chi continua ad ascoltare vecchi dischi, rimpiange i grandi di un tempo, facendo impossibili paragoni, dimenticando che anche loro furono fischiati: come il grande Pavarotti, che arrivato, in una Lucia di Lammermoor del 1983, a “bell’alma innamorata”, fu vittima di una stecca, e questo fiasco divenne famoso in tutto il mondo. Certe volte non bastano i fischi: nel 1970, per qualche gorgoglio nei Vespri siciliani, alla povera Renata Scotto, futuro idolo del Metropolitan di New York gettarono addosso una caterva di rapanelli. In una Luisa Miller del 1969, Katia Ricciarelli, amatissima dai melomani che però non avevano gradito il suo recente matrimonio col divo tv Pippo Baudo, la insultarono, e lei, di rustica intemperanza, gridò «Dio vi maledica!», mentre il marito inseguiva i loggionisti e ne prendeva a calci qualcuno.
Più i cantanti sono celebri, meno accettano è ovvio di essere subissati da buu che ritengono comunque ingiusti: recentemente è capitato a Cecilia Bartoli che era assente dalla Scala da 19 anni. La dirigeva il grande Barenboim che non riuscì a impedire le grida loggioniane «Tornatene a casa» e «Povero Rossini». I cantanti fischiati raramente sono tornati alla Scala, i più famosi non ci vogliono venire, per non rischiare. La loro fama e i loro guadagni sono legati soprattutto alle case discografiche quasi tutte straniere e temono che un insuccesso nel teatro più importante del mondo, li danneggi in modo inevitabile. Ecco perché gli integerrimi melomani scaligeri sono in grado di gestire il successo delle star della musica. Sono loro a sostenere che la Scala sia un teatro tradizionale, ed è per questo che negli ultimi anni i loro bersagli sono diventati soprattutto due registi giovani: l’italiano Michieletto e il russo Tcherniakov. Sono geniali, innovatori, amatissimi ovunque, richiesti dai grandi teatri per la loro capacità di rinnovare l’opera, di rendere meno pedanti certe trame di Verdi o di Wagner, esaltandone invece la grandezza musicale, quella sì immortale. Ma c’è anche un pubblico, quello che paga palchi e poltrone, che se è straniero accoglie le novità, se è milanese meno; ci furono gazzarre tra signore ingioiellate per un Lohengrin senza cigno e per un Don Giovanni in motoretta.
Molti spettatori confondono la regia con la scenografia e i costumi e se la Traviata non è in crinolina ed Enea non si muove tra colonne joniche, allora anche loro fischiano con l’immutabile nostalgia per una sola Aida, quella piena di schiavi nudi con regia di Zeffirelli.

Natalia Aspesi, la Repubblica 19/6/2014