Eugenio Occorsio, la Repubblica 19/6/2014, 19 giugno 2014
L’ASSEDIO AL GREGGIO STRONCA LA RICOSTRUZIONE E SPIAZZA L’OPEC
«Sull’Iraq non ci facciamo troppo affidamento. Non mi piace fare affari con un Paese dove appena scendo dall’aereo devo mettermi il giubbotto antiproiettile». Suonano profetiche le parole che ci disse Paolo Scaroni, allora amministratore delegato dell’Eni, in uno degli ultimi giorni dell’anno scorso. Eppure allora sembrarono asimmetriche rispetto al sentire corrente: l’Iraq stava rientrando alla grande nel mercato petrolifero globale. Di lì a poche settimane la produzione avrebbe raggiunto i 3,6 milioni di barili al giorno, la seconda quota nell’Opec dopo l’Arabia Saudita nonché il massimo da 35 anni, da prima cioè che sul Paese si abbattessero i ripetuti Armageddon che l’hanno martoriato. Nei primi mesi di quest’anno, le compagnie occidentali facevano la fila (tranne l’Eni, appunto) per stringere la mano ad Al Maliki, festeggiare la ritrovata stabilità e siglare contratti multimiliardari. Si susseguivano proiezioni sensazionali: 4,5 milioni di barili entro fine 2014, poi 5 milioni l’anno prossimo, e poi sempre di più fino a 8,5-9 milioni a fine decennio. In un discorso alla Chatham House di Londra il 27 gennaio, il segretario generale dell’Opec, Abdalla El-Bardi, riconobbe il ritrovato ruolo anche politico dell’Iraq all’interno dell’organizzazione (l’Opec ha ancora un ruolo assolutamente dominante negli scenari energetici malgrado non produca più del 40% del greggio mondiale contro il 75% degli anni 70) e chiese ufficialmente a Bagdad di compensare con le sue produzioni le quote mancanti per la perdurante crisi in Libia, i cronici problemi tecnici della Nigeria, lo stallo nelle trattative per tirare fuori dall’embargo l’Iran. Era previsto che il 60% della capacità addizionale dell’Opec da qui al 2019 arrivasse dall’Iraq.
Niente più di tutto questo. L’attacco dell’Isis ha ancora una volta rovesciato le speranze del Paese. Le compagnie occidentali stanno precipitosamente facendo marcia indietro. Eppure le proiezioni di crescita produttiva erano fondate. Secondo le ultime stime dell’International Energy Agency, l’Iraq detiene 141 miliardi di barili in riserve accertate (contro i 129 miliardi calcolati fino all’anno scorso), tutto petrolio di ottima qualità e grande facilità di estrazione, ancora meglio di quello saudita. La stessa Iea conferma che il 60% di queste riserve si trova in cinque super-giacimenti lungo i confini orientali del Paese, lontano dagli scontri, il 17% nell’area Kirkuk-Mosul, il 4% nel Kurdistan e il resto sparso nelle altre zone. Ma il problema è che per sostenere gli incrementi previsti occorrono opere infrastrutturali altrettanto impegnative: pozzi, terminal, oleodotti, acqua. Solo per quest’ultima voce servono 10-15 milioni di barili al giorno di acqua di mare parzialmente depurata, un lavoro da 10 miliardi di dollari che doveva fare la Exxon e che invece non farà. L’opera faceva parte del maxi-piano di investimenti pubblici annunciato sotto elezioni (30 aprile) da Al Maliki: 174,8 trilioni di dinari (120 miliardi di euro) nel 2014, rispetto ai 138,4 trilioni del 2013 (realizzati solo in parte). Un aumento del 26% del budget dopo quello del 18% dell’anno scorso da finanziare appunto con i proventi del surplus petrolifero. Ora tutto è paralizzato.
Eugenio Occorsio, la Repubblica 19/6/2014