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 2014  giugno 14 Sabato calendario

MARINA ABRAMOVIC “IL VERO CAPOLAVORO SARÀ IL MIO FUNERALE”

[Intervista] –

Una donna senza terra, ma legata alla potenza dei vulcani; artista d’avanguardia, ha consolidato la performance come disciplina fondamentale del nostro tempo; bambina complessata per il suo fisico, adolescente educata severamente, rabbiosa innovatrice, con un percorso di rivelazione e iniziazione per icone della cultura pop come Lady Gaga, Marina Abramovic è una donna eccezionale. Coraggiosa, aperta, sincera, gentile e saggia, l’artista dell’underground globale, nata a Belgrado nel 1946 e residente a New York.
Fuggì dalla Jugoslavia di Tito e dai suoi genitori, eroi nazionali del regime. Oggi, secondo la lista redatta dalla rivista Time, è una delle cento persone più influenti al mondo. Marina Abramovic rimane sulla breccia delle sue provocazioni austere, della sua sfida all’artificio, e confessa la speranza che Antony Hegarty, la voce rotta e labirintica degli Antony and the Johnsons, canti al suo funerale. Un evento che ha già preparato con cura, come la sua ultima performance, per quando verrà quel giorno.
Dall’immobilità e il silenzio praticati in The Artist Is Present , la sua famosa performance al Moma, alla meccanica meditazione di Counting the Rice a Ginevra, c’è una consapevole rivendicazione della lentezza e anche del fermarsi. Perché?
«Faccio questi esercizi da tempo. Li mettevo in atto per crescere come artista, ma ora penso che sia meglio che li faccia il pubblico. Che tu sia un banchiere o un contadino, concentrarti su quello che fai fa bene. Ai miei studenti a volte suggerisco di aprire una porta, senza entrare né uscire, per tre ore, lentamente. La porta diventa qualcosa che si trasforma. La ripetizione, in tutti i rituali, svolge un suo ruolo, trasmette un’energia concreta e apre la coscienza. La salvezza sta nella semplicità».
Rivediamo la sua vita. Quelle tre Marine che coabitano in lei, come lei dice. Che cosa ricorda di Marina bambina?
«Ero molto timida, introversa, piena di complessi».
Di che tipo?
«Per il mio aspetto: così alta, piena di brufoli e con un naso enorme. Avevo i piedi piatti. Mia madre mi vestiva con abiti orribili, gonnelline da principessa, camicette di cattivo gusto; quando mi lasciavano fare, mettevo cose diverse, e questo mi faceva diventare la pecora nera. Mi chiamavano giraffa, avevo dei voti terribili... In tutto questo, non ero felice nemmeno a casa, dove i miei litigavano sempre».
Che cosa facevano i suoi genitori?
«Erano degli eroi nazionali all’epoca di Tito. Erano stati partigiani. Mio padre era stato in carcere negli anni Trenta per le sue idee comuniste, poi lo fecero generale con medaglia al merito per le sue azioni di guerra. Era molto vicino a Tito, per cui eravamo dei privilegiati. Mia madre fu nominata direttrice del Museo d’Arte della Rivoluzione, un incarico politico. Mio padre se ne andò di casa quando avevo 17 anni, fu una cosa molto drammatica».
Ho letto che subì delle violenze, degli abusi... In che modo?
«Da parte di mia madre, soprattutto. Un esempio: avevo già cominciato la mia carriera ed ero stata molto criticata dal sistema. Un giorno tornai a casa verso le dieci di sera, ed era tutto buio. Mia madre mi aspettava con le luci spente e un vestito molto sobrio. Qualcuno le aveva detto che sua figlia stava in una galleria d’arte, nuda, appesa al muro. Mi guardò e, con un portacenere di vetro molto pesante in mano mi disse una frase del Taras Bulba : “Io ti ho dato la vita e io te la tolgo”. Mi tirò il posacenere in testa ed ebbi il tempo di pensare: “D’accordo. Non mi muovo, mi spaccherà la testa e finirà in carcere per il resto della sua vita”. Alla fine, però, mi scansai. E me ne andai di casa».
Non l’ha più vista?
«Sì, tornai dieci anni dopo, quando cadde il Muro. Feci una conferenza e lei venne. Un giornalista la intervistò durante la pausa e lei rispose che allora non mi aveva capito, ma provava a farlo adesso».
Ci riuscì?
«Mai. Quando morì e io misi in ordine le sue cose in casa, trovai tutti i miei cataloghi con le pagine strappate. Quelle in cui io apparivo nuda. Non poteva ammettere tra i suoi cari quello che io facevo, era duro per lei».
E riguardo a Ulay, che è stato il suo compagno per 11 anni? Come lo conobbe?
«Il giorno del mio compleanno, in Olanda. Quando lo vidi aveva la metà della testa e del viso rasati, l’altra metà con i capelli e la barba lunghi. Mi attrasse fin dal principio. Fino a quel giorno avevo strappato dalle agende la pagina del mio compleanno, perché che era sempre stato infelice. E lui pure».
La vostra storia d’amore è diventata un’icona nell’arte dei nostri giorni.
«Sì, è vero. Un amico mi ha detto: “Molte coppie, quando si lasciano, lo fanno per telefono, ma voi... dovevate percorrere la Grande Muraglia, partendo da lati opposti, per separarvi?”».
Quante volte, mentre facevate quella performance della vostra separazione in cui ognuno doveva percorrere parti opposte della muraglia, per poi incontrarvi e dirvi addio, avete pensato che sareste riusciti a separarvi?
«Era impossibile. Io non sapevo che cosa sarebbe successo. Quel che è certo è che, quando arrivammo al punto stabilito, lui aveva già messo incinta la sua traduttrice. Era la fine».
Dopo quella relazione ha più sperimentato un amore altrettanto profondo con un altro?
«Sì. Non immediatamente, ma conobbi mio marito, con il quale ho vissuto per dieci anni — due dei quali da sposati — e poi ci siamo separati. È stato altrettanto doloroso. Si dice che più cresci, più diventi forte. Invece no. Adesso sto davvero attraversando una tappa meravigliosa della mia vita. Lavoro duramente e molta gente mi dice che me la devo godere, che sono diventata un’icona. Ma è successo così lentamente che non mi ha cambiato. Il successo è uno strumento. Se morissi adesso, mi sentirei soddisfatta di aver collocato l’arte della performance in un posto rispettato e seguito. Era terra di nessuno, mi ci sono voluti 40 anni per costruirla».
Crede che siano troppi?
«Mi piacerebbe che il mio istituto diventasse una piattaforma interdisciplinare per grandi artisti, per scienziati, qualcosa di simile alla Bauhaus. Poter mettere insieme architetti, neuroscienziati, tecnologia... Sono stufa di questo involucro economico che circonda l’arte. Come quella testa di diamanti di Damien Hirst. L’arte non costa. Puoi fare delle cose più grandi con dei chicchi di riso».
Lei dice che non le importa di essere un’icona.
«C’è qualcosa che mi preoccupa da sempre, ed è di riuscire ad avvicinarmi al pubblico dei più giovani, sono quelli che ti assicurano di sopravvivere».
Ci è riuscita anche grazie a figure come Lady Gaga, che la idolatra. Mi racconta il vostro idillio?
«Il fatto è che un suo video ha più di 40 milioni di visite su Internet. Gli artisti non arrivano a tanto. Per me non esistono barriere, sono una militante della libertà. Se avessi seguito quelli che volevano chiudermi in un manicomio negli anni Settanta, che ne sarebbe stato di me?».
Lady Gaga è stata molto generosa con lei, riconoscendo la sua influenza; non altrettanto Madonna, alla quale rimprovera una certa mancanza di considerazione. È così?
«Sono molto diverse. Forse Madonna ha avuto una vita molto dura e delle esperienze terribili. È molto importante essere generosi. Quando arrivi a un punto nella vita in cui hai accumulato potere, dovresti mostrarti grande e saper condividere. Non so, io la penso così».
E del suo funerale, che mi dice?
«Penso ogni giorno a come accadrà. L’ho anche messo in scena in Life and Death of Marina Abramovic , a Madrid. Non so quanto durerò. Ma voglio confessarti che ho paura. Ogni volta che mi trovo in aereo in mezzo a una turbolenza ho bisogno di fare testamento».
Canterà Antony Hegarty, così come lei vorrebbe?
«Certo. Anche se sarà così triste che non so se ce la farà. Deve cantare My Way. Lui dice che la versione migliore è quella di Nina Simone, e che non è sicuro di poterla superare, speriamo di sì. Io gli ho detto che non mi importa, purché lo faccia. Adesso ha tirato fuori la scusa che morirà prima di me. Non gli credo, è più giovane».
Traduzione di Luis E. Moriones © Jesús Ruiz Mantilla (E-L P-AÍS) All rights reserved

JESÚS RUIZ MANTILLA, la Repubblica 14/6/2014