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 2014  giugno 14 Sabato calendario

JOHN MALKOVICH


«Da bambino passavo ore a cambiare pantaloni, camicie, trovando nuovi accessori e combinazioni possibili. Amavo già i travestimenti. Modificare l’immagine esterna ti fa sentire diverso anche dentro. Sono piccoli viaggi interiori da fermo». John Malkovich non ha paura di esprimere la sua vanità. L’attore americano, nato nell’Illinois ma con origine croate e franco-scozzesi, ha uno stile originale, raffinato con nonchalance. Un dandy del ventunesimo secolo, uno snob poliglotta dai modi garbati che vive ovunque e da nessuna parte, tra la casa a Cambridge, vicino Boston, un’altra a Bonnieux, nella campagna del sud della Francia, il ristorante a Lisbona di cui è socio e la fabbrica che produce la sua collezione di vestiti a Prato.
Attore, regista, produttore, e ora anche stilista. Una passione che viene da lontano, quando da piccolo giocava ad aprire gli armadi di famiglia. La moda non è futilità, dice. La ricerca dell’apparenza è anche introspezione e può diventare una finestra aperta sul mondo. «Ho cominciato ritagliando fotografie e pubblicità sulle riviste per farne collage, disegnando accanto rielaborazioni, vestiti immaginari».
L’ispirazione è nutrita dalla letteratura — Proust, Tolstoj o Scott Fitzgerald — ma anche dagli incontri per strada. Malkovich ha collaborato con varie maison, da Prada a Comme des garçons, girando video per la stilista londinese Bella Freud, nipote del padre della psicoanalisi.
Dieci anni fa ha lanciato la sua prima collezione di vestiti, Uncle Kimono , e dal 2010 firma la collezione Technobohemian, nome ispirato da un romanzo italiano e che sintetizza il suo approccio alla vita: nomade ma sempre connesso.
«Non è lavoro, solo piacere» commenta a proposito di questa nuova attività. Malkovich rivendica un certo snobismo che gli permette di parlare di confezione di abiti da vero professionista. Dalla concezione alle ultime finiture, tutto è fatto in modo artigianale, proposto in pochi, esclusivi punti vendita. «Amo scegliere i tessuti, le forme, curo ogni dettaglio. Per me si tratta di un altro mezzo di espressione». Uno stile che reinventa pezzi tradizionali. L’abito è rigorosamente tre pezzi, con gilet o panciotto, ma con cravatta morbida di lana. Maglioni larghi e di cotone, accompagnati da foulard di seta con motivi infantili disegnati dall’attore-stilista: bollicine, arabeschi, curve sinusoidi. «Appena ho cominciato a fare teatro — ricorda — mi sono interessato agli abiti di scena. Anche nel cinema ho sempre cercato un dialogo con i costumisti». Dal visconte di Valmont, il cinico seduttore de Le relazioni pericolose di Stephen Frears, allo psicopatico dei fratelli Cohen, in Burn after reading, l’attore statunitense riesce sempre a imprimere un tocco di eleganza ai suoi personaggi. Quando ha portato in scena e adattato a teatro Le relazioni pericolose , in cui la corrispondenza libertina tra Valmont e la marchesa de Merteuil diventa un frenetico scambio di sms, Malkovich ha fatto produrre appositamente anche gli abiti di scena. «Sono un tuttofare», scherza lui che ha fondato la sua compagnia teatrale nel 1976, a 23 anni: la Steppenwolf Theatre di Chicago, omaggio a Il lupo della steppa di Hermann Hesse. Oggi, a 60 anni, ha recitato in oltre 70 film e 50 pièce, aprendo una società di produzione, Mr. Mudd, che ha finanziato tra l’altro Juno di Jaison Reitman e The Libertine con Johnny Depp.
Durante l’intervista, nello showroom By di Parigi, ostenta una lunga barba fatta crescere apposta per le riprese di Crossbones, la serie tv americana in cui interpreta il leggendario pirata Barbanera. Parla perfettamente francese, ha vissuto quasi dieci anni nel sud del paese, crescendo i suoi figli lontano dall’America. Ora si divide tra gli Stati Uniti e l’Europa. È già in ripartenza, per il Canada, dove girerà un film sul poeta Dylan Thomas. Nella valigia di questo bohémien cosmopolita c’è sempre qualche giacca. «Non capisco chi sostiene che si tratti di un indumento scomodo», spiega con un pizzico di civetteria. «Ci si può vestire in modo confortevole senza essere sciatti». Tutti i capi firmati da lui sono fabbricati a Prato, con materie prime italiane. «Tranne il denim che viene dal Giappone» precisa. L’Italia è una seconda (o terza, quarta) casa per lui. Ha conosciuto sua moglie Nicoletta Peyran nel 1989, durante le riprese de Il tè nel deserto. Lei era l’assistente alla regia di Bernardo Bertolucci e lui recitava con Debra Winger. Insieme hanno avuto due figli, Amandine e Loewy. «L’idea di una collezione di moda mi è venuta a Milano» racconta Malkovich che ha trovato la complicità del designer Riccardo Rami e poi a Parigi di un’altra italiana, Liliana Ferri.
Malkovich non si vergogna del suo narcisismo. Un vizio? Non sempre. A volte, spiega, è una forma di cura di sé e rispetto degli altri. Guardarsi allo specchio può essere una necessità. Nel suo caso, l’amor proprio è sbocciato all’adolescenza. «A 12 anni pesavo cento chili, mi chiamavano “Big Malko”. È allora che mi sono deciso a fare sport. Il mio corpo si è trasformato». È stata la prima di tante metamorfosi. Con la faccia da pugile e il suo sguardo acuminato, una voce “orgasmica”, come ha scritto il Guardian, un fisico da un metro e novanta che non passa inosservato, Malkovich è un attore di culto. È stato chiamato a interpretare Dio in una pubblicità con George Clooney ed ha dato il suo nome al titolo di un film, Being John Malkovich di Spike Jonze, privilegio che spetta a poche star. Defilato dalle mondanità hollywoodiane, quando non è su un set si isola nella casa francese a dipingere o cucinare, un’altra delle sue passioni: nei nuovi docks di Lisbona ha aperto un ristorante, Bica do Sapato. John Malkovich applica la sua ricerca estetica nei campi più svariati. Troppo facile dire che è un modaiolo, o “fashionista” solo perché come i serpenti ama cambiare pelle. «Mi capita di uscire di casa in tuta, vestito come un barbone. E al cinema adoro i ruoli che mi imbruttiscono. Sono proprio così: un eterno paradosso».
Mi capita di uscire di casa conciato come un barbone E adoro i ruoli che mi imbruttiscono Sono un eterno paradosso.

Anais Ginori, la Repubblica 14/6/2014