Aldo Grasso, Corriere della Sera 19/6/2014, 19 giugno 2014
IL DEFICIT CULTURALE CHE OPPRIME LA RAI
Vuol far presto Matteo Renzi sulla Rai: «Dobbiamo aprire una discussione seria, la Rai deve diventare uno strumento culturale, uno straordinario strumento educativo, un vero servizio pubblico con un’informazione libera». Ma cos’è un «vero» servizio pubblico? Non certo quello offerto dalla Rai, par di capire. Qual è allora? C’è una domanda ancora più radicale che si fa strada fra gli studiosi di comunicazione: ha ancora senso il servizio pubblico o è ormai un concetto superato, legato alla cultura del dopoguerra?
Senza cadere nell’enfasi dei difensori del Sp (strumento pedagogico, pilastro delle democrazie, baluardo contro l’invadenza delle tv di Berlusconi e le spinte ultraliberiste), il suo ruolo si giustifica soltanto attraverso un profondo ripensamento. In Europa, le prerogative per svolgere questo non facile compito — l’idea cioè che la diffusione di programmi radiotv costituisca un «bene pubblico» e non un fatto privato demandato al mercato — sembrano appartenere solo al modello britannico. Ma se la Bbc viene indicata quale esempio di imparzialità (in verità, le ingerenze del governo esistono anche lì), di prestigio, di capacità di progettare il futuro, è merito anche di un diverso scenario socioculturale. Il futuro dalla Bbc è garantito dalla sua tradizione e dalla tradizione del pubblico cui si rivolge. Non così in Italia.
Da noi, ora che lo scenario mediatico è cambiato, il concetto di Sp va ripensato almeno a tre diversi livelli, in vista della scadenza della concessione prevista per il 2016. In questo momento, il cosiddetto «contratto di servizio» (dal quale dipende il pagamento del canone) è poco più di una finzione, tenuta in piedi da alcuni stanchi fantasmi retorici come il pluralismo, le pari opportunità, la difesa delle diversità culturali.
Il primo livello è quello politico, ed è il più difficile. Da parecchi anni la Rai è considerata un bottino di guerra: i partiti che vincono hanno diritto di scegliere i vertici di Viale Mazzini, premiando più la fedeltà che l’esperienza. È possibile chiedere alla politica di fare un passo indietro? È come chiedere ai senatori di abolire il Senato. Si può fare, ma ci vuole un consenso generale. Solo allora sarà possibile trovare il giusto ordinamento legislativo (Fondazione, Royal Charter o Cahiers de charges…) che garantisca al Sp un sufficiente grado di autonomia dal governo e dal Palamento, a partire dalla scomparsa di quell’istituto tardo sovietico che è la Commissione di vigilanza.
Il secondo livello riguarda la governance di Viale Mazzini. La Rai ha un handicap che non lascia adito a speranze, una sorta di entropia delle competenze che umilia anche chi fa bene il suo lavoro. Da troppo tempo, i dirigenti vengono chiamati per appartenenza politica e, alla fine, l’incompetenza (la mancanza di conoscenza specifica dei linguaggi tv e delle logiche industriali) influenza la gestione operativa. Spesso i vertici designati dal governo non si sono mai interessati in vita loro di tv o di media. Il merito più grande dell’attuale dirigenza, assillata dal far quadrare i conti, è stato quello di aver sconfitto, anche solo per ragioni anagrafiche, i califfati del «partito Rai». Non è poco, ma non è molto.
È venuto il tempo che direttore generale, direttori di rete e dei tg e tutta la linea di comando siano scelti attraverso la presentazione di curriculum: ogni nomina dev’essere di stampo professionale. Un recente studio del professor Roberto Perotti ha dimostrato come la Bbc, rispetto alla Rai, abbia meno dirigenti; ma, evidentemente, più preparati. Basti pensare ai loro standard di produzione o a come hanno progettato il domani dell’azienda, a partire dal portale online , uno dei più visitati al mondo.
Il terzo livello, infine, riguarda i programmi. Di questo ambito non si discute mai, nonostante sia quello decisivo. Solo i programmi, i prodotti, i contenuti, l’offerta editoriale, i brand di rete sono oggi in grado di qualificare il Sp. Ai tempi della Raitre di Angelo Guglielmi non si facevano tanti discorsi sul significato di Sp: bastavano certe trasmissioni per capire che la vivacità intellettuale è presupposto necessario.
A ben pensarci, per definire il ruolo del Sp non conta il numero di canali a disposizione (anche se 15 canali tv e tre radiofonici sono un’esagerazione). Non conta la separazione contabile (l’idea di una rete pagata dal canone e delle altre pagate dalla pubblicità è una mezza sciocchezza). Non contano soltanto le scelte tecnologiche, il futuro passa anche altrove. Non conta il numero delle sedi regionali, benché sarebbe giusto chiuderle e tenere in vita solo i centri di produzione. Contano i programmi: i contenuti non lasciano scampo, sono loro a qualificare l’immagine del Sp.
Per esempio, uno dei settori più importanti per l’identificazione moderna del concetto di Sp è quello della fiction , il racconto di una nazione. Da anni, la Rai non riesce a produrre che vite di santi (santi veri, sportivi, politici, capitani d’industria...), con forte tendenza all’agiografia. Il che fa sospettare che persino la fiction sia lottizzata. Nessun progetto di grande respiro, nessuna volontà di capire che l’immaginario dei nostri giorni, come testimonia la serialità americana e nordeuropea, passa attraverso la fiction .
La Rai deve innanzitutto ritrovare autorevolezza nell’informazione, liberarsi, nel suo insieme, di un «deficit culturale». Per anni il concetto di Sp è stato prigioniero di una forte idealizzazione ma oggetto di una scarsa elaborazione teorica e, col tempo, è diventato un affare sempre più di bottega. Il premier Renzi si riferisce a questo garbuglio da sciogliere quando parla di «vero» Servizio pubblico? Basta chiamare a consultazione, come ha fatto la Bbc con i suoi utenti, quegli umorali degli italiani per risolvere i problemi?