Enrico Brignano, Vanity Fair 18/6/2014, 18 giugno 2014
HO MENTITO PER AMORE
Quelli che dicono che New York è una grande città non sanno di cosa parlano. Non sanno che può capitare che proprio nel ristorante dove un mese fa avevano appeso la locandina di Rugantino ci suoni l’armonica ogni mercoledì sera Mariano. E che Mariano sia lo stesso modello sardo che ho conosciuto quando vent’anni fa venni a New York per la prima volta. Quello che faceva il capocameriere del ristorante dove avevo trovato lavoro anch’io, quello che acchiappava tutte le ragazze tranne una, quello che poi è diventato il mio coinquilino nell’appartamento che avevo arredato coi mobili lasciati nella spazzatura dai ricchi dell’Upper East Side.
«Che per caso conosci un certo Mariano?», mi fa l’altra sera Giovanni, il proprietario del ristorante Via della Pace. E io: «Sì, perché?». E lui: «Carramba, che sorpresa!». È finita che Mariano e Kerry, l’unica non acchiappata da lui, l’altra sera sono venuti alla prima di Rugantino al New York City Center. E il mio sogno americano di riportare a Broadway dopo 50 anni lo spettacolo di Garinei e Giovannini ha assunto il sapore del ritorno, e non solo perché tra i 90 attori sul palco ce n’era uno di 78 anni che era andato in scena anche allora. Il fatto è che nella New York che abbiamo conquistato l’altra sera con Rugantino ho rischiato di viverci. Proprio io che vent’anni fa ci sono arrivato senza neppure sapere che Broadway fosse una Avenue de sguincio che si prende tutta l’isola. Io che pensavo che Broadway fosse una piazza.
La mia storia con New York nasce da un vuoto cosmico. Era la primavera del 1993 e non avevo niente da fare, anche perché Proietti stava girando un film per la Tv e non faceva la stagione estiva. Me ne stavo su una staccionata a Castel Fusano a guardare un amico che andava a cavallo quando mi si è seduta di fianco una ragazza neanche bella che, dopo avermi chiesto chi conoscevo, mi domandò: «Vieni con me a New York?». «Embé, quando?». E lei: «Quando vuoi». E io: «Subito. Tu ti informi degli alberghi e io dei biglietti: ci vediamo qui domani».
L’indomani lei non c’era, ma nella notte io avevo organizzato: volo con ritorno aperto di sei mesi perché non si sa mai, scuola Berlitz per la full immersion in inglese, 700 dollari per le spese. Dopo pochi giorni li avevo già spesi tutti in spettacoli di Broadway. E allora feci quello che fanno tutti gli italiani in difficoltà a New York: andai a Little Italy a cercare un posto da cameriere. Vidi un ristorante con la scritta verde SPQR e pensai: sono a casa. Invece mi mandarono in un ufficio di collocamento e, dopo poco, facevo il bus boy al Laguna Restaurant sulla Seconda Avenue e 92esima Strada.
La prima persona che ci conobbi fu Mariano. Con quella voce da Amedeo Nazzari mi disse che cercava casa, e se mi interessava
dividerla con lui. Poi mi chiese: «Sei omosessuale?». Rimasi basito. Avrei capito se mi avesse domandato: sei stato in galera? Sei un terrorista pronto a farti espolodere? Risposi: «No, ma se anche fosse?». Mi spiegò che, essendo donnaiolo e avendo convissuto con uomini gay, si era accorto che le ragazze si mettevano a spettegolare con loro e si distraevano, facendolo andare in bianco.
Dopo poco la mia vita era strutturata così: giornata alla Berlitz con sede alla scuola Julliard – un posto fantastico di fianco al Lincoln Center – e sera al ristorante. Quando la Berlitz finì trovai un’altra scuola di inglese, gratuita, per russi, e a quel punto avevo anche cominciato a lavorare in un secondo ristorante downtown. Fu allora che si presentò Kerry Birghingham, una bellissima ragazza di Kansas City, che ovviamente mi chiese di Mariano. Le dissi di scrivere il suo numero su una bustina di zucchero, ché glielo avrei dato, ma poi cambiai idea: presi un’altra busta, ci copiai il numero mettendo un 8 al posto del 3, per non sentirmi troppo in colpa, e lasciai quella sul tavolo di Mariano. Dopo pochi giorni chiamai Kerry, e lei accettò di uscire con me.
A quel punto avevo la fidanzata americana, due lavori, e stavo per prendere il numero di social security quando, il 14 agosto, mia madre mi telefonò dicendo: ha chiamato Proietti. Che mi invitò ad andarlo a trovare a Miami. Lo feci, e lui dopo uno spettacolo a un tavolo dove tutti parlavano romanesco mi chiese di unirmi alla compagnia che riprendeva gli spettacoli da Palermo. Decisi di tornare a Roma: quella di New York non era la mia vita.
Ed è così che non mi sono unito alla colonia degli italiani che hanno fatto questa città grande, un sindaco italiano alla volta, alternato a uno di origini ebraiche come succedeva nell’antica Roma con i re, uno etrusco e uno romano. Ogni volta che torno mi stupisco di quanto gli americani sognino di essere italiani mentre noi ci detestiamo, e partecipando alla sfilata del Columbus Day o agli eventi alla scuola italiana penso che il nostro Paese potrebbe essere un punto di riferimento anche più forte di quello che già è.
New York non è la mia città ma è quella che lo è di più fuori Roma, e ormai ho la mia routine. Faccio indigestione di spettacoli di Broadway, vado a curiosare al Chelsea Market, vado in bicicletta a Central Park. Ogni volta mi stupisco di quanto velocemente le cose qui cambino e allo stesso tempo siano sempre uguali. Il Laguna ora è un ristorante cinese. Il teatro che ospitò per la prima volta Rugantino con Aldo Fabrizi ora è una chiesa di Scientology, la religione di Tom Cruise. Ma mettendolo in scena mi sono reso conto che Rugantino resta per gli americani abituati al lieto fine uno spettacolo rivoluzionario, quasi pulp: non per niente è stato scritto da Gigi Magni, che era tarantiniano prima di Tarantino.
Finito tutto? In realtà un altro sogno americano lo avrei: mi piacerebbe tornare in America da solo, a fare stand up comedy. Vorrei raccontare il bello dell’Italia, ma il vero ostacolo è la lingua. Dovrei tornare a scuola, e guarda caso proprio oggi mi è arrivata una mail della Berlitz che mi propone corsi. Hanno cambiato sede: ora stanno al Rockefeller Center. Che dite, si può fare?
(testo raccolto da Marco De Martino)