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 2014  giugno 18 Mercoledì calendario

FATELI ANDARE VIA


13 giugno 2005: dopo cinque mesi di processo, Michael Jackson viene assolto dall’accusa di abusi sessuali su minori. Ma la sentenza non cancella il muro di sospetto che lo circonda. L’anno dopo, Bill Whitfield viene avvicinato da un amico che gli propone di lavorare come guardia del corpo di un cliente misterioso. Cliente che si rivela essere appunto Jackson. Assieme al collega Javon Beard, Whitfield vive in simbiosi con la popstar e i suoi tre figli. Per quasi tre anni: fino a quando, il 25 giugno 2009, Michael muore, cinquantenne, ucciso da un’overdose di farmaci somministrati per errore dal suo medico personale Conrad Murray.
Alla vigilia del quinto anniversario della tragedia, la leggenda del Re del pop non tramonta. Il suo disco postumo, Xscape, vende ogni settimana centinaia di migliaia di copie. E arriva nelle librerie americane e inglesi un volume – Remember the Time: Protecting Michael Jackson In His Final Days – dove, per la prima volta, Bill e Javon raccontano la profonda solitudine degli ultimi anni di vita di un uomo perseguitato, fin da bimbo, dall’isolamento che è l’effetto collaterale della fama. Tanto estraniato dalla realtà da non sapere dell’esistenza dei barboni, da restare scioccato alla loro vista, da passare intere serate a porgere loro biglietti da 100 dollari dai finestrini della sua limousine.
Nel brano che segue, i due bodyguard, che affidano le loro confessioni al giornalista Tanner Colby, raccontano del dolore di Jackson per l’egoismo rapace dei fratelli e del padre. Dell’attaccamento assoluto ai figli. Di una misteriosa «Amica». E della bizzarria del destino che gli porta in casa Conrad Murray, il suo «dottor morte».
Bill: «Quello su cui il signor Jackson era davvero paranoico, e per cui più sentiva di aver bisogno di noi, era essere protetto dalle persone che facevano parte della sua vita. Gli servivamo per nascondere i suoi movimenti ad avvocati e manager, e per fare da cuscinetto fra lui e la famiglia. Nessun parente poteva superare il cancello della villa senza preavviso, a eccezione della signora Jackson, sua madre. Tutti gli altri dovevano prendere appuntamento.
«C’erano fan che passavano davanti a casa sua in macchina continuamente. Un giorno in particolare, all’inizio di febbraio, abbiamo visto una Chrysler Pt Cruiser che faceva avanti e indietro davanti alla villa. Già quello ha fatto scattare l’allarme. Il giorno dopo, la stessa PT Cruiser è tornata e si è fermata esattamente davanti al cancello. Sono andato giù a vedere, e dalla macchina ho visto scendere il padre del signor Jackson, Joe Jackson. È un uomo che a vederlo fa paura. Lo guardavo e pensavo: cazzo, questo è il tizio che riempiva di botte i Jackson 5. Ho infilato la mano attraverso il cancello per stringergliela e gli ho detto: “Come va, signor Jackson?”. Lui si è limitato a guardarmi in cagnesco, dopodiché mi fa: “Tu devi essere uno di quelli che infilano aghi nelle braccia di mio figlio”. Non ho risposto. E lui: “Devo vedere Michael”.
«Sono tornato in casa a chiamare il signor Jackson. Stava ascoltando musica a tutto volume. Ho bussato alla porta, e quando è uscito gli ho detto: “Signor Jackson, qui fuori c’è suo padre”. Mi fa: “Ha un appuntamento? È in agenda?”. E io: “Non mi pare, signor Jackson”. Allora lui: “No, no, no. Sto lavorando. Non posso essere disturbato mentre sto creando. Digli che deve tornare dopo aver preso appuntamento”.
«Mi ha messo in difficoltà. Sono tornato giù al cancello pensando: cazzo, adesso io devo dire a quest’uomo che gli tocca prendere appuntamento? Per vedere suo figlio?
«Sono andato lì e gli ho detto che il signor Jackson era occupato, ma che se fosse tornato l’indomani avrei provveduto io ad avvisare il figlio. Poi ho fatto per dargli il mio biglietto da visita. Non l’ha preso. “Non mi serve il tuo cazzo di numero! Non fosse per me, nessuno di voi bastardi avrebbe un lavoro! Tutto questo l’ho creato io!”».
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Bill: «Il signor Jackson ed Elizabeth Taylor erano vecchi amici, e lei stava organizzando una festa per i suoi settantacinque anni in un
resort su Lake Las Vegas. Una cosa in grande stile, con tanto di red carpet. I collaboratori della signora Taylor avevano saputo che ora il signor Jackson viveva da quelle parti, e si sono messi in contatto con il manager per chiedergli di partecipare. Volevano farle una sorpresa. E ovviamente il signor Jackson ci voleva andare».
Javon: «La prima cosa che il signor Jackson ha fatto è stata chiamare Roberto Cavalli, lo stilista, per farsi disegnare un abito su misura. Cavalli ha preso il primo volo ed è venuto. Il signor Jackson ha fatto arrivare in aereo anche la sua parrucchiera e la sua truccatrice. A quel punto abbiamo capito che stava prendendo la cosa molto sul serio. Lavoravamo per lui da più di un mese, ed era la prima volta che ci diceva: “Ricordatevi di indossare completi nuovi. Non solo completi eleganti, ma nuovi”. “Lucidate la macchina. Le scarpe devono brillare come specchi”».
Bill: «Il giorno della festa è stato di buonumore fin dal mattino. Una cosa contagiosa. È riuscito a trasformare l’atmosfera di tutta la casa. Stavamo per partire, avevamo portato le macchine nel vialetto, era tutto pronto, ma il signor Jackson ci stava mettendo una vita a prepararsi. Mentre lo aspettavamo, mi sono allontanato per andare a fare il pieno a una delle auto. Poi sono tornato, e ho visto il cancello che si chiudeva dietro di me. Stavo scendendo dalla macchina, mancavano cinquanta centimetri perché il cancello si chiudesse del tutto, quando di colpo – SBAM! – si è sentito uno schianto fortissimo. Girandomi, ho visto un Suv Mercedes grigio che andava a sbattere contro il cancello a tutta velocità. L’ha sfondato e ha proseguito raschiando contro il metallo. Allora ho tirato fuori la pistola e sono corso in quella direzione».
Javon: «In quel preciso istante, il capo ha fatto per uscire dalla porta del garage. Gli ho urlato: “Signor Jackson! No!”. E l’ho spinto di nuovo in casa, chiudendolo dentro. Lui è andato nel panico, ripeteva: “Che succede? Va tutto bene?”».
Bill: «Il Suv ha inchiodato facendo fischiare i freni davanti alla porta della villa. Ho alzato la pistola e l’ho puntata contro il conducente. Quello si è abbassato, e con la coda dell’occhio ho visto che sul sedile del passeggero c’era una donna. Sono rimasto spiazzato. Poi il conducente ha rialzato la testa, ho visto chi era e sono rimasto di sasso. “Porca puttana”, ho pensato. “È suo fratello. Quello è Randy Jackson”.
«Randy ha abbassato il finestrino e mi ha urlato: “Metti via quella pistola, prima che chiami la stampa”. La stampa? Era l’ultima cosa di cui il capo aveva bisogno. Mi sono avvicinato al finestrino e gli ho detto: “Signor Jackson, non può fare queste cose”. “Sono venuto a trovare mio fratello”, ha risposto lui. “Così no, non può. Devo chiederle di uscire dal cancello. Andrò a informare il signor Jackson che lei è qui”. “Io non mi muovo finché non vedo mio fratello!”».
Javon: «Ha attaccato a urlare, imprecando come un matto, ripetendo che il signor Jackson gli doveva dei soldi e che senza quelli non se ne sarebbe andato. “Michael mi deve dei soldi! Io non mi muovo di un centimetro, se prima non vedo i miei cazzo di soldi!”».
Bill: «Me ne fregavo di che cosa voleva. Doveva uscire da quel cancello e basta. Gli ho chiesto di portare fuori il veicolo per poter parlare da persone civili. Non ha voluto. Non sapevo che fare. Ho lasciato Javon a sorvegliare Randy e sono entrato in casa per parlare con il signor Jackson. “Suo fratello Randy ha sfondato il cancello”, gli ho detto. “Dice che non se ne va finché non ha parlato con lei”. Il signor Jackson ha fatto una smorfia e si è girato dall’altra parte. “Fallo andare via”, mi ha detto».
Javon: «Ho pensato di bloccare Randy con uno dei furgoni, far uscire il capo dall’ingresso laterale, prendere un’altra macchina e tagliare la corda. Ma il signor Jackson non ha voluto. Mi ha detto: “Troverà il modo di seguirci fino alla festa di Liz, e lì farà una piazzata tremenda. Lei non se lo merita”».
Bill: «Passata un’altra mezz’ora, sono rientrato in casa e ho ripetuto al signor Jackson che Randy non se ne voleva andare. Il signor Jackson per un po’ non ha reagito, poi con un sospiro ha detto: “Ok. Io me ne vado a letto”. È salito al piano di sopra, ha chiuso la porta e non è più uscito».
Javon: «Ci siamo rimasti malissimo. Eravamo a pezzi, sia per il signor Jackson sia per noi stessi. Ero orgoglioso di lavorare per lui, e volevo una chance per accompagnarlo in pubblico, fare vedere alle persone che lavoravo per Michael Jackson. Il compleanno di Liz Taylor: ci rendiamo conto? Siamo esseri umani, è normale che fossimo su di giri».
Bill: «Randy è rimasto lì per altre due ore. Abbiamo dovuto chiamare suo padre. Era l’unica possibilità che ci veniva in mente. Randy è un uomo adulto, e adesso dovevamo chiamare il papà perché venisse a risolvergli i casini».
Javon: «Dopo quella sera, il signor Jackson non è uscito di casa per tre giorni. Non lo abbiamo più sentito. Si è chiuso in se stesso completamente».
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Bill: «Una settimana dopo si è presentata la famiglia al completo. Era stata una lunga giornata, avevamo portato il signor Jackson allo studio di registrazione del The Palms, dove stava incidendo con will.i.am. Erano al lavoro sull’album Thriller 25. Io ho staccato verso mezzanotte, e mentre stavo tornando a casa il team mi ha chiamato via radio. “Bill, c’è qui tutta la famiglia!”. Sono tornato
di corsa, ed entrando dall’ingresso laterale ho raggiunto Javon. Uscendo, abbiamo visto un gruppo di persone che stazionava davanti al cancello. Sembrava ci fossero tutti tranne Randy e Marlon. Per un attimo mi è sembrato di vedere uno speciale sulla reunion dei Jackson».
Javon: «Erano tutti in incognito, con il cappello e gli occhiali da sole. Era tardissimo, e faceva talmente freddo che davanti alla villa c’era solo un fan. Niente paparazzi a fare casino, cosa che rendeva il tutto ancora più strano».
Bill: «Mi sono avvicinato al cancello e gli ho chiesto cosa ci facevano lì a quell’ora della notte. E loro: “Abbiamo saputo che nostro fratello sta male. Siamo venuti a controllare che sia tutto a posto”. Io gli ho detto che nulla mi aveva fatto sospettare che il signor Jackson non stesse bene. Hanno risposto che volevano constatarlo di persona, e che fino a quel momento non se ne sarebbero andati. Insomma, ero incastrato. Il signor Jackson ci aveva ordinato espressamente di non disturbarlo, ma al tempo stesso non potevamo lasciare l’intera famiglia Jackson in mezzo alla strada all’una di notte senza che scoppiasse un finimondo, altra cosa che il signor Jackson non avrebbe voluto. Sono tornato verso la casa, ho suonato il campanello e aspettato che il signor Jackson scendesse. Nel frattempo mi dicevo: “Qui va a finire male”. Quando ha aperto la porta, gli ho detto: “Signor Jackson, fuori c’è la sua famiglia.
Insistono per vederla”.
«Non gli ha fatto piacere per niente. Ho capito che era arrabbiato con me perché non avevo saputo gestire la situazione. Gli ho spiegato: “Hanno saputo che lei non stava bene, e volevano controllare che fosse tutto a posto”. “Sto bene, sto bene”, ha protestato lui, “digli che sto bene”. E io: “Signor Jackson, loro finché non la vedono non se ne vanno”.
«Lui è rimasto in silenzio per un attimo, poi ha detto: “D’accordo, li incontrerò. Ma in casa mia non li voglio”. Io: “Posso portarli nel gabbiotto della security”. E lui: “Va bene. Ma parlerò solo con i miei fratelli”. Poi mi ha chiesto se c’era Randy. Gli ho detto che non l’avevo visto. “Bene”, fa lui. “Randy non lo voglio vedere”.
«Sono tornato al cancello e ho detto ai suoi parenti: “Il signor Jackson vuole vedere soltanto i fratelli”. Da dietro ho sentito una voce: “E io?”. All’inizio non vedevo chi fosse. Poi mi sono reso conto che era Janet. Una parte di me si sarebbe messa a strillare: “Oddio, è Janet Jackson!”. Ma ho detto solo: “Mi spiace, signora Jackson. Ha specificato: solo i fratelli”. Lei non l’ha presa bene. I fratelli sono entrati, e li ho accompagnati al gabbiotto. Poi sono andato a chiamare il signor Jackson. Lui è sceso e li ha raggiunti. Hanno chiuso la porta e sono rimasti a parlare per una ventina di minuti. Il primo a uscire è stato il signor Jackson, che è andato dritto in casa, senza dire una parola. Poi sono usciti i fratelli e sono tornati al cancello, ed è finita lì. Di che cosa abbiano parlato, non lo so».
Javon: «In seguito abbiamo scoperto che erano venuti perché gli era arrivata una voce. Sul signor Jackson giravano sempre delle voci. Quella volta, in particolare, gli era stato detto che il fratello era ammalato, ma non era vero. Erano ammalati i bambini. A gennaio
si erano presi tutti il raffreddore. Così gli avevano organizzato una visita da un medico privato, di sera, dopo l’orario di chiusura.
La segretaria dello studio aveva fatto trapelare la notizia che Michael Jackson era stato lì, e la famiglia lo era venuto a sapere. Si erano insospettiti».
Bill: «Era quella la cosa difficile di essere Michael Jackson. Ci volevano giorni di pianificazioni e preparativi solo per portare i figli dal dottore. Prendevi ogni precauzione, dopodiché bastava passare quindici secondi accanto alla persona sbagliata e di colpo cominciavano a girare voci.
«Paris non guariva, e il signor Jackson temeva le stesse venendo l’influenza. Al pronto soccorso non potevamo andare, e il signor Jackson non si fidava di tornare da qualcuno che non conosceva. Voleva un medico che venisse a casa. Allora Jeff Adams, mio socio e cugino di Javon, ha detto che il loro medico di famiglia era disponibile a passare, come favore personale. Mi hanno dato un nome e l’orario a cui sarebbe venuto. Quella sera arriva sul vialetto una Bmw 745i, da cui vediamo scendere un signore alto e magro, con un camice azzurro da dottore. Avvicinandosi al cancello, si è presentato: “Sono il dottor Conrad Murray”.
«Avevo un accordo di riservatezza pronto da fargli firmare. Prima di tirarlo fuori, gli ho chiesto se sapeva chi doveva visitare. Ha risposto di no. Allora gli ho detto che prima di entrare doveva firmare il modulo. Lui ha guardato l’intestazione del documento e ha visto
il nome Michael Jackson. Ha alzato le sopracciglia e mi ha lanciato un’occhiata come a dire: sul serio?
«Ho fatto sì con la testa. Lui ha firmato. Siamo andati verso la casa, ho suonato e siamo rimasti ad aspettare. Ho visto la sagoma del signor Jackson avvicinarsi da dietro il vetro della porta. Quando ha aperto, gli ho detto: “Signor Jackson, questo è il dottor Murray.
Dottor Murray, le presento il signor Jackson”».
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Bill: «I momenti in cui più coccolava i figli erano le feste di compleanno. Veniva da noi con una lista di tutto quello che voleva: “Voglio che mi troviate un clown. Un mago. Una macchina per fare i popcorn. Una per lo zucchero filato. Un castello gonfiabile”. Ed era anche precisissimo sui dettagli: “Dovete trovare un clown che sappia fare gli animali con i palloncini”. Una volta, l’unica clown che avevamo trovato e che facesse gli animali con i palloncini era già occupata. Il signor Jackson ci ha detto: “Fate qualunque cosa, ma portatela qui”. Alla fine l’abbiamo pagata più del doppio. La sua tariffa era di 75 dollari all’ora, noi gliene abbiamo dati 250.
«Facevamo consegnare tutto a domicilio, le decorazioni, le torte enormi. Preparavamo i contratti per clown e maghi, li sottoponevamo a controlli di sicurezza, davamo loro da firmare accordi di riservatezza. I paparazzi sanno quand’è il compleanno. C’erano elicotteri che volavano bassi sulla casa, nella speranza di scattare una foto del signor Jackson o del figlio festeggiato. E noi dovevamo evitarlo».
Javon: «La prassi era la stessa per tutti i compleanni. Facevamo chiudere il negozio di giocattoli Fao Schwarz perché i bambini potessero fare shopping indisturbati. Poi li portavamo al pranzo speciale di compleanno. Di solito mangiavano cinese. Il ristorante Wing Lei
del Wynn Hotel era uno dei loro preferiti. C’era una sala privata sul retro che riservavano al signor Jackson. Dopo pranzo, avevano affittato un cinema. E mentre loro erano in giro, la casa veniva addobbata. Poi tornavano e: “Sorpresa!”. Ecco il mago, il clown con i palloncini, lo zucchero filato».
Bill: «Nessun invitato, non c’erano altri bambini. Solo i clown, il signor Jackson, io e Javon, a volte la maestra o la tata. I figli non avevano amici. Ricordo che una volta siamo passati davanti a una scuola, fermandoci al semaforo. Era l’intervallo, e i bambini stavano giocando nel cortile. Mentre eravamo fermi lì, il signor Jackson mi ha detto sottovoce: “Bill, guarda”. Paris e i due fratelli avevano la faccia appiccicata ai finestrini. Guardavano gli altri bambini, con un’espressione come a dire: “Te la immagini la vita là fuori?”. Era un altro universo, a cui loro non avevano accesso».
Javon: «Ogni tanto ti intristivi a vedere l’isolamento in cui vivevano, ma a loro bastava stare insieme ed erano sempre felicissimi. Quando il signor Jackson doveva uscire senza i bambini, loro gli dicevano: “Ti voglio bene, papà” e lui rispondeva: “Io di più”. Era il loro piccolo rituale. E quando poi tornava a casa, gli correvano incontro gridando: “Papà! Papà! Papà!”».
Bill: «Erano una piccola squadra, loro quattro. Non avevano nessun altro. Dalla camera da letto del signor Jackson si accedeva al tetto. C’era una scala a chiocciola che portava alla sua terrazza privata, da dove si vedeva tutta la città e il deserto intorno, le montagne, le luci della Strip di Las Vegas. Era una delle loro attività di famiglia preferite: salire sul tetto e guardare il tramonto o le luci. Paris lo ha perfino detto in un’intervista, poco dopo che lui è mancato. Le hanno chiesto qual era il suo ricordo più caro, e lei ha risposto: “Quando salivamo sul tetto della casa di Las Vegas”.
«Un venerdì sera ero di servizio nel gabbiotto della security. All’improvviso sento dei colpi fortissimi venire dal garage, e una voce che strilla: “Aprite questa porta! Aprite questa porta!”. Ho pensato che qualcuno stesse cercando di infilarsi in casa. Sono corso in garage, e girando l’angolo ho visto il signor Jackson fermo lì, con una cuffia da doccia azzurra in testa e un pigiama a righe bianche e blu. Stava picchiando una scarpa contro la porta da cui si entrava in casa. Gli faccio: “Signor Jackson, va tutto bene?”. E lui, con un sorriso da un orecchio all’altro: “Sì sì, benissimo. Stiamo solo giocando a nascondino, e mi hanno chiuso fuori”. Loro erano così».
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Bill: «Eravamo in Virginia da un paio di settimane quando il signor Jackson viene da me e mi dice che verrà a trovarlo un’amica. Gli chiedo: “È una persona su cui devo fare dei controlli?”. E lui: “No, no, lei è a posto”. Per un paio di giorni, ogni volta che si discuteva dei preparativi per quella persona, lui la chiamava soltanto “l’Amica”. Siamo andati a prenderla in macchina all’aeroporto di Dulles. Aveva un accento dell’Europa dell’Est».
Javon: «Era uno schianto di donna, con i capelli scuri, ricci. Minuta. Ci siamo presentati, e lei non ha detto mezza parola. Tornando dall’aeroporto, ha preso il telefono e chiamato il signor Jackson:
“Sono arrivata. I ragazzi mi stanno portando in albergo”. Per me, quello era il segnale che si trattava di una persona importante. Il signor Jackson aveva preso il nuovo iPhone solo da un paio di settimane. Quel numero non ce l’aveva ancora nessuno.
«Le abbiamo fatto fare check-in, comunicandolo poi al signor Jackson. Io e Bill ci siamo chiesti perché stesse in albergo. Di solito il signor Jackson ci faceva portare gli ospiti a casa».
Bill: «Era in città già da un paio di giorni, quando alla fine il signor Jackson è andato a trovarla. Ero io che lo portavo a quegli appuntamenti. La sera tardi prendevo la macchina e lo portavo a questo Hampton Inn. Entravamo di nascosto, dall’uscita di sicurezza. Lo accompagnavo alla stanza di lei, dopodiché aspettavo fuori finché non mi chiamava. 
La prima volta si sarà fermato quattro ore. Tornava sempre a casa prima che i bambini si alzassero per fare colazione».
Javon: «Quando l’Amica è tornata, una sera il signor Jackson ci ha detto di volerla portare a Washington per vedere il Lincoln Memorial e qualche altro monumento. Sarà
stata mezzanotte. I bambini sono rimasti con Grace (Grace Rwaramba, la tata dei figli, ndr), mentre io e Bill abbiamo recuperato il signor Jackson, siamo andati a prendere l’Amica in albergo e li abbiamo portati in città. Stavano seduti dietro, a parlare e bisbigliare. La tendina era chiusa, e avevamo alzato la radio per lasciargli un po’ di privacy.
«Abbiamo parcheggiato a circa un isolato e mezzo dal monumento a George Washington. Da lì bisognava scendere e andare a piedi. Ho abbassato la radio per dire al signor Jackson che eravamo arrivati, e si sentiva solo uno schioccare di labbra. Sapevo esattamente che cosa fosse quel rumore. Quei due stavano pomiciando».
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Bill: «Dopo che è morto, è passata una settimana prima della commemorazione allo Staples Centre. Io ero in contatto con una signora della AEG, perché a gestire l’organizzazione erano loro. Le ho detto che mi servivano due biglietti per me e Javon. Poi, qualcosa come due giorni prima della cerimonia, ricevo una telefonata. Dall’altra parte c’era una donna che piangeva. Mi ha detto: “Bill, sono Joanna”. Joanna? Io non conoscevo nessuna Joanna. E lei: “Bill, sono io. Joanna. L’Amica”.
«Ah. L’Amica. Quella della Virginia. Le ho detto: “Ciao, come stai?”. Lei continuava a piangere. Mi ha detto: “Bill, io devo vedere Michael. Devo dirgli addio. Ti prego, Bill, puoi aiutarmi?”.
«Non conosceva la parola commemorazione. Continuava a chiamarlo “lo show”. Diceva: “Bill, io devo andare allo show”. Ma farla entrare era impossibile. Il signor Jackson l’aveva tenuta nascosta a tutti. Non sapevo cosa fare, così le ho detto che l’avrei richiamata».
Javon: «Io non ci volevo andare. Non sopportavo tutti quei vip che saltavano fuori dal nulla spacciandosi per i suoi migliori amici. Gente che diceva cose tipo: “L’ultima volta che ci siamo visti con Michael, un annetto fa…”. Io guardavo la Tv e pensavo: “Non è vero. Io ero sempre con lui, e non ti ho mai visto”. Sapevo che il funerale sarebbe stato una farsa, e non mi andava di trovarmi in mezzo a tutta quell’ipocrisia. Ero già nervoso, insomma, quando Bill mi chiama per dirmi dell’Amica. Allora gli faccio: “Bill, a rappresentare noi vai tu, e il mio biglietto dallo a lei. È giusto che ci sia”».
Bill: «Ho richiamato l’Amica e siamo rimasti in contatto, decidendo che sarei andato a prenderla a Los Angeles. Quando mi aveva chiamato non era nemmeno negli Stati Uniti. Ha fatto in modo di arrivare dall’Europa in meno di un giorno.
«La mattina della commemorazione mi sono messo in fila, ho preso i biglietti e sono uscito ad aspettare l’Amica. A un certo punto ho sentito alle mie spalle una voce acuta: “Bill!”. Stava di nuovo piangendo. Sembrava piangesse ininterrottamente da dieci giorni.
«Una volta entrato, ho capito immediatamente che sarebbe stato esattamente quel che ci aspettavamo. Non una cosa autentica. Sarebbe stata Hollywood, un posto dove farsi vedere, un parterre di celebrità. Guardandomi intorno, vedevo tutte quelle star. La gente parlava, rideva, socializzava. C’erano perfino le Kardashian. Da non credere. Ci fosse stato Javon, avrebbe dato di matto. Nel settore dove mi trovavo io ci saranno state 1.500 persone, e che soffrivano davvero, in lutto, ne avrò viste giusto quaranta o cinquanta.
«Cominciata la celebrazione, a quel che succedeva sul palco non ho badato più di tanto. Ero perso nei miei pensieri. Mi sembrava che tutte quelle persone sul palco stessero dando l’addio a un’altra persona, diversa da quella che conoscevo io.
«Gli artisti si esibivano uno dietro l’altro – Usher, Mariah Carey, John Mayer – ma non ci facevo nemmeno caso. Aveva ragione 
l’Amica. Non era una commemorazione, quella. Era uno show».

(Traduzione di Matteo Colombo)