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 2014  giugno 18 Mercoledì calendario

LE STRADE INESPLORATE DELLA BCE


Quando nel 1931, per uscire dalla crisi, il Regno Unito abbandonò la convertibilità aurea della sterlina rispettata, con due interruzioni belliche, sin dal 1717, Lord Snowden, cancelliere dello scacchiere, sbottò: «Perché nessuno mi aveva mai detto che fosse possibile fare questo?». Forse qualcuno in questi giorni si è chiesto: «Perché nessuno mi aveva mai detto che fosse possibile pagare tassi d’interesse negativi?». Chissà cosa avrebbe pensato San Bernardino, l’apostolo della lotta all’usura, se gli avessero detto che sarebbe stato necessario pagare chi accettava di ricevere un prestito...
Come nel caso della sospensione della convertibilità aurea, il tasso d’interesse negativo è misura, se non del tutto inedita, con ben pochi precedenti. La prima sperimentazione fu fatta dalla Riksbank, la banca centrale svedese, tra il luglio 2009 e il settembre 2010. Nel 2012 fu la volta della Danimarca, a quanto pare attentamente osservata dalla Banca centrale europea. Si trattava di una piccola economia aperta che aveva, insieme a Svizzera e Norvegia, soprattutto il problema di evitare un eccessivo apprezzamento della propria valuta generato da capitali in fuga dall’euro. Paesi di maggiori dimensioni non si sono sinora spinti sino a rompere verso il basso la barriera del tasso vicino a zero che preoccupa economisti e banchieri e centrali da quando Keynes, Haberler e Pigou parlarono di trappola della liquidità per indicare una situazione in cui la politica monetaria non ha strumenti sufficienti a rilanciare una domanda stagnante.
Nel 2013, la Banca d’Inghilterra prese in considerazione l’adozione di tassi d’interesse negativi ma concluse, pur tenendo aperta l’opzione, che questa misura avrebbe avuto un impatto limitato sulla domanda.
Il caso più studiato è quello del Giappone che a partire dagli anni 90 introdusse a più riprese stimoli monetari, inclusi tassi d’interesse negativi su buoni del Tesoro a brevissimo termine. I risultati furono modesti, sino alla nuova combinazione di misure monetarie e fiscali adottate dal governo Abe, i cui risultati di lungo termine sono peraltro ancora sub judice. La Banca del Giappone, tuttavia, non si è spinta sino alla remunerazione negativa delle riserve.
Viviamo, dunque, in uno degli infrequenti momenti in cui i precedenti storici ai quali rifarsi sono molto pochi. Uno di essi fu, appunto, l’abbandono della convertibilità aurea nel 1931. L’altro si verificò nel 1971, con la fine del sistema di cambi fissi creato a Bretton Woods nel 1944. Sia negli anni 30 sia negli anni 70 i responsabili della politica economica navigarono a vista, in condizioni mai prima sperimentate, provando, imparando dagli errori, aggiustando empiricamente la rotta a mano a mano che la navigazione procedeva in acque sconosciute. È probabile che sarà così anche nei mesi e anni a venire. Una banca centrale diversa da ogni altra sin qui conosciuta affronta un problema, la deflazione, che non si presentava dagli anni 30 e che fu allora gestito, con poche eccezioni, da banche centrali di cui cultura e strumenti si erano forgiati nell’ossessione della lotta all’inflazione.
Il poco che la storia può insegnare di fronte a una situazione di tale novità è che gli esiti sono, per definizione, poco prevedibili. Ciò è tanto più vero quanto lo strumento che più oggi cattura l’attenzione, i tassi negativi, non sarà probabilmente quello decisivo. Le altre misure adottate e quelle lasciate intravedere «se necessarie» sono destinate a essere le più incisive, ma sono anch’esse poco sperimentate. In che misura e con quali tempi arriverà il credito alle piccole e medie imprese? E queste saranno in grado di utilizzarlo? Se fosse necessario andare oltre, come si adatteranno alla realtà europea strumenti utilizzati negli Stati Uniti? Dobbiamo aspettarci che le risposte arrivino attraverso un processo di apprendimento, anche dall’errore, e di progressivo adattamento.
Nell’inevitabile incertezza della (quasi) "prima volta", la storia offre, malgrado tutto, due punti fermi. Il primo è la consapevolezza che la deflazione è un pericolo da evitare anche a costo di prendere rischi non del tutto calcolabili: la Bce fa bene a correrli. Il secondo punto fermo è la consapevolezza che non ci si deve aspettare che la politica monetaria da sola, con strumenti vecchi o nuovi, possa risolvere tutti i problemi. Non fu così negli anni 30, non sarà così nell’Europa di oggi. La Bce ci salverà probabilmente dal radicamento delle aspettative di caduta dei prezzi, intanto ci sta regalando tempo che va usato bene, soprattutto in Italia. La bonaccia dopo la tempesta dei debiti sovrani è il momento non solo per riparare la nave ma anche per rafforzarla ristrutturandola. Il caso ventennale del Giappone, riluttante alle riforme, dimostra che senza di esse poco possono la larghezza monetaria e fiscale. Sappiamo sin d’ora che il puntare tutto e solo sulla Bce e sul "convincere" Bruxelles a concedere sforamenti di qualche decimo di punto nel rapporto disavanzo/Pil ci farà perdere un’ulteriore, forse ultima, occasione per rilanciare un’economia e una società catatoniche da oltre un ventennio.

Gianni Toniolo, Il Sole 24 Ore 18/6/2014