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 2014  giugno 18 Mercoledì calendario

“LA SVOLTA DALL’INTUIZIONE DI UNA BIOLOGA POLIZIOTTA MA L’OSTACOLO PIÙ GRANDE È STATA L’OMERTÀ DEI PAESI”


«Me ne rendo conto, c’è una domanda che tutti vorrebbero farci. Ed è questa: perché c’è voluto tutto questo tempo? Provo a spiegarlo. Cercherò, per quanto posso, intuizioni e fallimenti compresi, di ripercorrere il giallo di Brembate entrando nei dettagli. Lo faccio perché la storia di Yara è stata la più brutta e complicata nella mia carriera di investigatore». L’accordo con il superpoliziotto prevede due condizioni.
L’ATTESA E LA RABBIA
La prima: «Scriva che faccio parte di un gruppo formato da Squadra mobile di Bergamo, Servizio centrale operativo, e Polizia scientifica. Che siamo partiti in venti e alla fine, fissi, siamo rimasti in dieci. Anche quando sembrava che non si arrivasse al “pallino”. Cosa di cui pure eravamo certi». La seconda condizione la pone Repubblica. Rompiamo il velo dei non detti nella ricostruzione delle indagini; niente scaricabarile, e sospensione del burocratese sbirrresco. Ora che “Ignoto 1” ha un nome e un volto e Massimo Giuseppe Bossetti, incastrato dal Dna, è in carcere accusato di omicidio aggravato, sequestro di persona, violenza sessuale, occultamento di cadavere, la “gente” — in primis i genitori di Yara — deve sapere come sono andate le cose dal 26 novembre 2010 fino a 48 ore fa. Anche quelle che hanno funzionato meno; anche quelle che hanno dilatato l’attesa e l’angoscia e sollevato polemiche. A volte rabbia e sconcerto. Perché «un’indagine così complessa vista da fuori poteva apparire uno stallo. Invece camminava, pur con tutte le difficoltà e l’umana fallibilità del caso».
UN REGALO PER LA SCIENZA
«Scena. Settembre di due anni fa. Entriamo a casa Guerinoni a Gorno. Immaginate l’atmosfera coi familiari di Giuseppe Benedetto — è il nome per esteso — l’autista morto dodici anni prima che, riscontri scientifici alla mano, ci risulta essere il padre naturale del killer. Parentesi: diciamo che un delitto può essere perfetto anche perché, per vari motivi, si creano condizioni per cui gli indizi e le prove, anche quelle più inaspettate, si perdono. A casa Guerinoni non è andata così. Da un cassetto saltano fuori: delle foto sbiadite, una cravatta, un pettine, e la vecchia patente anche questa con foto sbiadita. Che se fosse stata la patente moderna di oggi, addio francobollo e addio saliva. Non credevamo ai nostri occhi. Guerinoni ha fatto questo regalo alla scienza: ha leccato una marca da bollo. La nostra intuizione è stata quella. Una nostra biologa ha capito che dietro quel francobollo c’era la chiave per arrivare alla soluzione del giallo. Una svolta che, dopo i riscontri della Scientifica e dell’Università Tor Vergata, ha convinto l’autorità giudiziaria, di intesa con la famiglia, a far riesumare la salma per prelevare altro materiale biologico. Ecco, segnerei la patente come un punto di svolta».
Già, però poi ci sono voluti altri due anni per trovare il figlio illegittimo. Il killer. Che cosa (non) è successo, da allora? «Pensavamo, a quel punto, di chiudere il caso in 15 giorni. E invece... Nelle ricerche della madre ci siamo imposti la massima cautela. Per quanto possibile, anche un po’ di delicatezza. Questo ha ritardato di sicuro i tempi. Ma non potevamo fare in altro modo. Non solo se sbagliavi un passaggio dovevi ricominciare da capo. Ma poi: ha presente cosa significa individuare 500 persone che 50 anni fa hanno avuto contatti, non necessariamente carnali, con un uomo che non c’è più? È stato un lavoro immane, sfiancante. Ricostruisci tutti gli indirizzi delle persone, quelli vecchi, segui i cambi di residenza, i trasferimenti, i certificati dell’Inps, le bollette della luce e del gas, la sequenza scolastica e professionale. Le amicizie, le relazioni, gli intrecci veri o presunti. L’abbiamo fatto in decine di paesi e città. Dalla valle dei Guerinoni ai paesi delle zone dove sono avvenuti la scomparsa e il delitto di Yara. In questo lavoro di ingrandimento ci siamo
imbattuti nella difficoltà più grossa. Forse la più stupefacente...».
MURO DI GOMMA SULLE CORNA
Origini meridionali, l’investigatore dice che «l’omertà non conosce latitudini». Ed è, oggettivamente, sorpreso. «La vera anomalia di questa indagine, dal primo all’ultimo giorno, è stata la mancanza di testimonianze, di racconti, di spunti attendibili. A parte il Bigoni, ex collega di Guerinoni, in quattro anni non ci è mai arrivata una dritta interessante. Nemmeno anonima. Eppure l’assassino era lì, in casa, sul territorio. Poi c’è un altro aspetto, ancor più curioso. Non ricordo un’altra indagine di polizia dove ho trovato un muro di gomma così alto e spesso su storie di corna. Zero assoluto. Sembra incredibile, ma è così. Sono tradimenti di mezzo secolo fa, eppure nessuno ha parlato. Ricostruire dopo 15 anni la vita di un uomo non è stata una passeggiata. Abbiamo fatto inviti continui alla popolazione, sia noi che i carabinieri: “Chiamate i numeri verdi”. Muti. Pensare che tutte le indicazioni che venivano fuori da personaggi intervistati, anche dalla stampa più locale, quella dei paesini, le abbiamo verificate tutte».
ERRORI E FALSE PISTE
Un poliziotto è, o dovrebbe essere, un uomo di scienza e coscienza. E onestà intellettuale. Gli scivoloni sono scivoloni. Le sviste e le sottovalutazioni, pure. Il nostro non si sottrae. «Leggo ora che il muratore Bossetti magari lavorava nel famoso cantiere di Mapello. Osservazione legittima. Ma lo voglio dire con chiarezza: il suo nome non era nella lista di quelli che lavoravano in quel cantiere. Che pure è vicino a casa sua. Né vi lavorava in nero, insomma da invisibile. Con le polizie internazionali, da quelle africane a quella polacca, li abbiamo individuati e verificati tutti i muratori che sono passati da là. Tutti i colleghi del povero Fikri. L’errore semmai è stato un altro. I primi giorni ci si è concentrati esclusivamente sulla ricerca di Yara tralasciando l’elettronica: traffici telefonici, telecamere. Non posso pensare che in quell’angolo della Bergamasca non vi fossero telecamere “buone”. Ci siamo un po’ persi. Ogni pista che aprivi ti portava a 50 strade diverse. Il furgone. La macchina. Prima bianco, poi scuro, poi rossa. La verità è che non avevi né immagini né testimonianze solide».
Un accenno a Fikri. «È stato un errore dovuto alla precipitazione di chiudere subito il cerchio. Che ha creato distonia nell’attività investigativa. E non lo dico perché è capitato ai carabinieri. Poteva succedere anche a noi. Oltretutto l’intesa tra Polizia e Arma in questa indagine è stata esemplare. Bastava solo verificare la data di prenotazione del viaggio in nave. Ai detective insegni che prima raccogli gli indizi, e poi cerchi di capire se si incastrano con la persona. Non il contrario».
I LEGGINS E IL KILLER NORMALE
Chi è Giuseppe Bossetti prima e dopo 1262 giorni da fantasma? «Quando troviamo il cadavere di Yara capiamo subito che si tratta di un killer solitario e che l’omicidio non ha niente a che vedere con un certo tipo di criminalità, sequestri a scopo estorsivo eccetera». Killer solitario? Bravo lavoratore? Padre di famiglia? Tranquillo? Normale? Usciamo dalla retorica del campionario criminale. «Classica persona apparentemente normale, certo. Con alla base una devianza sessuale. Tipico caso di femminicidio, aggravato dall’età della vittima. L’aggressione sessuale per noi era scontata fin da subito. Bossetti ha commesso solo un grave errore: lasciare una goccia del suo sangue sui leggins di Yara. Poi, uscita la storia del figlio illegittimo, deve avere contato sul silenzio della madre. Che pure in questa storia sembra una vittima. Credo che né lui né lei si siano ancora capacitati di come un’indagine scientifica possa risalire ai parenti di una persona morta molti anni fa. Dal Dna del ragazzo della discoteca “Sabbie Mobili”, Damiano Guerinoni, parente lontano di Giuseppe, abbiamo ricostruito tutta la sequenza maschile. E alla fine abbiamo trovato “Ignoto 1”. Forse non parla perché non si è ancora reso conto di come, passati quattro anni, siamo arrivati a beccarlo».

Paolo Berizzi, la Repubblica 18/6/2014