Paolo Siepi, ItaliaOggi 18/6/2014, 18 giugno 2014
PERISCOPIO
Grillo si dice pronto al confronto con Renzi. Ha studiato dei nuovi insulti divertentissimi. Spinoza. Il Fatto quotidiano.
In Italia c’è rimasto ancora qualcuno che non sia renziano? Jena. la Stampa.
I soldi arrivarono, ma non a Orsoni: al Pd per la sua campagna elettorale e lui non poteva certo sospettare che essi fossero illeciti. In fondo, come può un umile avvocato, giurista e docente di diritto amministrativo, sapere che la legge proibisce alle società pubbliche o miste (tipo il Consorzio di Venezia Nuova) di finanziare i partiti e che i finanziamenti leciti da imprese private vanno rendicontati sia da chi li eroga sia da chi li riceve? Se Orsoni insegnasse logica saprebbe almeno che la versione A: «Sono estraneo, non ho mai visto un euro» è lievemente incompatibile con la versione B: «Il partito mi costrinse a chiedere quei soldi», a sua volta in leggero contrasto con la versione C: «I soldi andarono al partito a mia insaputa». Ma Orsoni insegna diritto e non è tenuto alla logica. Resta da capire perché mai un professore così corretto, un amministratore così ignaro, per giunta sereno, anzi Serenissimo, munito finanche del certificato di onestà e correttezza rilasciato da Piero Fassino in persona, abbia deciso di patteggiare una pena detentiva per aver violato la legge. Marco Travaglio. Il Fatto quotidiano.
La fisiognomica è una scienza istruttiva, praticamente esatta. La faccia di Matteo Orfini (Pd) è una faccia di quelle che non si vedono più in giro, l’ultima avvistata chiedeva un gettone al bar tabacchi di piazza Mazzini. È finito a cavallo dei millenni per sbaglio. Lui sarebbe stato meglio fra l’Otto e il Novecento. Ha una faccia da sussidiario, pagine risorgimentali. Ha la faccia da eroica lotta per il socialismo tra le mondine e per le prime cooperative emiliano-romagnole. Esteticamente si situa tra Santorre di Santarosa e Felice Orsini e, salendo nei decenni, su qualche copertina di un carteggio Turati-Kuliscioff (nella parte di Turati, si capisce) e magari tra le prime file del Quarto stato di Pelizza da Volpedo. Stefano Di Michele. Il Foglio.
I giovani turchi del Pd, il cui capo, Orfini, adesso si è fatto nominare da Renzi presidente del partito, si autorappresentavano come una nuova corazzata Potemkin della sinistra italiana; e se ognuno di loro s’immaginava, nell’intimo, in moderno Ejzenstein, Renzi, nella loro considerazione, non era altro che un Pieraccioni buono, al massimo, a guidare una squadra parrocchiale. Così dicevano e pensavano, prima d’entrare nel governo e prima di insediarsi ai vertici del partito. Prima cioè di inchinarsi alla leggerezza dell’essere renziano. «L’allegria con cui si passa da Veltroni a Bersani e poi a Renzi senza provare a giustificare i propri cambiamenti», ebbe a dire un giorno Orfini, «è un male storico del Pd». L’allegria è rimasta, il male chissà. Marco De Marco. Corsera.
Quando Renato Vallanzasca fu catturato per la prima volta a Roma e portato, in manette, sul famoso balconcino, sotto c’era una folla di fotografi e giornalisti (la difesa della persona esiste solo per i delinquenti di grosso calibro, per gli altri valgono gli «schiavettoni»). Uno dei giornalisti, nel clima socializzante dell’epoca, gli chiese: «Vallanzasca, lei si ritiene vittima della società?». E lui rispose: «Non diciamo cazzate». Lo avrei graziato solo per questo. Vallanzasca ha sempre ammesso le sue responsabilità e se ne è assunto anche altre che erano pur sue ma che i magistrati avevano erroneamente attribuito ad altri. In 40 anni di carcere ha subìto i pestaggi più selvaggi da parte degli agenti di custodia (chi avrebbe mai difeso un «pendaglio da forca» come lui?) e non se ne è mai lamentato. Non ha invocato Amnesty International, come hanno fatto i ladri di Tangentopoli per poche settimane di detenzione preventiva e nemmeno difeso i suoi più elementari diritti di detenuto. Solo una volta, dopo un pestaggio più violento del solito, scrisse una lettera di protesta. Al solito giornalista che gli chiedeva: «Vallanzasca, lei è stato torturato?», rispose: «Beh, adesso non esageriamo». Massimo Fini. Il Fatto quotidiano.
Conosco Mario Capanna dai tempi del Corriere. Abitava in via Solferino, vicino alla redazione, per cui ci trovavamo spesso al bar per prendere un caffè insieme e scambiare quattro chiacchiere. Da direttore di Libero gli offrii di collaborare e lo stesso feci al Giornale. Patti chiari e amicizia lunga: io non gli toccavo neanche le virgole, lui s’impegnava a non insultare nessuno e a non crearmi altre grane in aggiunta a quelle che già avevo. Per grane intendo querele. Se voleva criticare Berlusconi, liberissimo di farlo. Ma a Capanna di Berlusconi non importava nulla, tutto preso com’era, e com’è, dall’ecologia, dai diritti genetici, che non ho mai capito quali siano, dagli Ogm, insomma da tutte quelle menate lì. Ha sempre rispettato gli accordi, adottando una scrittura misurata e rispettosa. Purtroppo i lettori, soprattutto quelli del Giornale, si sono rivelati assai meno urbani e democratici di Capanna. Ero sommerso quotidianamente da lettere e mail di protesta. Non contava ciò che scriveva, credo che non lo leggessero nemmeno: erano furenti per il solo fatto di veder comparire la sua firma sul quotidiano che più d’ogni altro era stato in prima linea nel combatterlo ai tempi del Movimento studentesco e dei katanga. Incazzati neri a prescindere. Io cercavo ogni volta di rispondere: guardate che Capanna non scrive editoriali, non interpreta la linea del giornale, è stato recintato in una piccola zona franca nella pagina delle lettere, da dove ci offre alcune opinioni poco ortodosse: perché non volete starlo ad ascoltare? Niente, non c’era verso di farli ragionare. Alla fine mi sono rotto le balle e ho preferito soprassedere, prima che qualcuno venisse a incendiarmi l’ufficio. Alessandro Sallusti, nel frattempo divenuto direttore, a dicembre 2010 ha tagliato il nodo gordiano cancellando la rubrica. Me ne rammarico. Non è stato un bell’esempio di tolleranza. Vittorio Feltri e Stefano Lorenzetto, Buoni e cattivi (Marsilio).
Intervista a un centenario. Quali erano le sue distrazioni preferite quando era giovane?». «La caccia e le donne». «E cosa cacciava?». «Le donne». Gino Bramieri, Barzellette (Euroclub).
L’appello al popolo è la grande carta in mano ai bari della politica. Roberto Gervaso. il Messaggero.
Paolo Siepi, ItaliaOggi 18/6/2014