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 2014  giugno 18 Mercoledì calendario

NELLA BASE DEI PESHMERGA CURDI «COSÌ IL SETTARIO MALIKI UCCIDE L’IRAQ»


DAL NOSTRO INVIATO ERBIL — L’accusa contro il premier iracheno è durissima, senza appello. «Da almeno due anni dicevamo a Nouri al Maliki che il Paese stava scoppiando. Gli chiedevamo di aprire il dialogo politico con noi, e soprattutto con i sunniti, per la creazione di un governo inclusivo. A dicembre poi i nostri militari comunicavano sempre più allarmati all’esercito iracheno che gli estremisti sunniti stavano armandosi, che i jihadisti arrivavano dalla Siria, che precipitavamo verso la catastrofe. Ma lui niente. Muto, altezzoso, sprezzante. Non ci rispondeva. Oppure ci lasciava capire di considerare i nostri allarmi al pari di macchinazioni, fumo negli occhi, trucchi per limitare il suo potere. Si è comportato non da primo ministro dello Stato unitario iracheno, bensì come un capetto cieco, confessionale e settario degli estremisti sciiti. E adesso siamo finiti nel baratro: nel pieno della guerra di religione. L’Iraq non potrà mai più tornare come prima. Maliki ora ci chiede aiuto, ma è troppo tardi». Parola di Jabar Yawer, 56 anni, generale peshmerga dello stato maggiore curdo. Una requisitoria, la sua, che rispecchia il pensiero dei massimi leader curdi e viene ripetuta tra i diplomatici europei, a Washington e nei circoli moderati sunniti.
Gli americani invitano Maliki a cercare un compromesso con il mondo sunnita? Lui replica accusando l’Arabia Saudita di fomentare il «genocidio» in Iraq. Le sue brigate scelte sono in realtà il fior fiore dei volontari sciiti che rispondono all’appello del Grande Ayatollah Alì al Sistani per difendere i luoghi santi dello sciismo a Samarra, Bagdad, Najaf e Karbala. Maliki sta fortificando il suo ufficio presso la «zona verde» di Bagdad, dove notte e giorno resta in contatto con i suoi ufficiali e dialoga con i responsabili iraniani per l’arrivo dei Pasdaran da Teheran. Ieri il premier ha dimesso diversi generali. Dai campi di battaglia tornano intanto le immagini dei massacri dei prigionieri diffuse sulla Rete. Dopo quelle dei sunniti che uccidono gli sciiti, le più recenti sono giunte ieri dal carcere di Baqouba, 60 chilometri a nord della capitale. Ancora giovani colpiti dai proiettili alla testa e al torace, le mani legate dietro la schiena, ammonticchiati gli uni sugli altri, sangue e sudore, una carneficina. Stavolta pare che almeno 44 prigionieri sunniti siano stati uccisi dalle guardie sciite. I comandi dell’esercito a Bagdad accusano i sunniti. Ma tre poliziotti sul posto testimoniano l’opposto. La linea del fronte resta incerta. Baqouba è sotto assedio. Si combatte a Tel Afar, la cittadina tra Mosul e il confine siriano catturata due giorni fa dai sunniti e che ora le brigate sciite tentano di riconquistare con l’appoggio di artiglieria e aviazione. Scontri anche a Falluja e Ramadi, nel cuore delle province sunnite. A Bagdad un’autobomba ha causato almeno 10 morti nel quartiere sciita di Sadr City.
Incontriamo il generale Yawer nelle stanze del quartiere generale peshmerga a Erbil. Su una mappa al muro indica la dimensione epocale degli stravolgimenti avvenuti nell’ultima settimana. «Sino a poco tempo fa il confine tra la zona autonoma curda e lo Stato iracheno era lungo 1.050 chilometri, dalla Siria all’Iran. Ora si è ridotto ad una striscia di terra ampia meno di 50 chilometri vicino all’Iran. Tutto il resto è caduto in mano alla coalizione di forze eterogenee che compone la rivolta armata sunnita». Yawer racconta le cronache recenti: «Da circa tre settimane la nostra intelligence aveva individuato l’infiltrazione delle avanguardie più fanatiche dello “Stato Islamico dell’Iraq e del Levante” dalla Siria orientale alla regione irachena di Ninive. Quasi 3.000 uomini si erano attestati a Rabiah, il quartiere meridionale di Mosul. Ma le forze di sicurezza irachene non avevano mosso un dito. Quando poi è cominciato l’attacco, i soldati governativi sono scappati». Proprio le conseguenze della fuga dell’esercito in tutto il Nord del Paese rappresentano l’incubo dei comandi curdi. Le milizie sunnite si sono impadronite di carri armati «made in Usa», elicotteri, jet, artiglierie e giganteschi depositi di armi leggere e munizioni. «All’inizio gli aggressori erano milizie primitive abituate alla guerriglia in Siria. Ma stanno diventando un vero esercito che, forte delle sue vittorie, attira nuovi volontari. Siamo molto preoccupati», commenta il generale.
I curdi rafforzano la linea del fronte, barricano la regione da loro occupata attorno ai pozzi petroliferi di Kirkuk e intensificano la collaborazione con le milizie curde in Siria, da tre anni impegnate nello scontro con i ribelli sunniti locali. Per loro il sogno di uno Stato indipendente è già realtà, ma devono ora difendersi dalle conseguenze della guerra sciito-sunnita.