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 2014  giugno 18 Mercoledì calendario

HABERMAS: LA MIA PROPOSTA PER UNA UNIONE PIÙ DEMOCRATICA


Professor Habermas, all’età di 85 anni cosa significa contemporaneità? Cosa la lega al mondo dei suoi figli e dei suoi nipoti?
«Lei intende contemporaneità come passione? Ci sono ancora eventi politici che mi emozionano. Per altri versi si vive la storicizzazione della propria generazione come se ti scuoiassero vivo. Riguardo ai miei figli, ormai da lungo tempo adulti, ho l’impressione che la loro percezione del mondo politico e intellettuale non sia sostanzialmente dissimile da quella dei loro genitori. Ma i miei nipoti, loro vivono già in un mondo completamente diverso...»
Quali sono le esperienze che ritiene abbiano più segnato la sua formazione?
«Le esperienze intellettuali si possono facilmente ricondurre alle persone. Ho incontrato il primo filosofo nel mio mentore e vecchio amico Karl-Otto Apel. Lo straordinario privilegio di una collaborazione con Adorno mi ha portato a contatto con un pensiero dall’affascinante potere illuminante. Anche con Wolfgang Abendroth e Hans-Georg Gadamer è stato come tornare all’università. Soprattutto ho avuto sempre la fortuna di poter contare su collaboratori brillanti che sono stati di grande aiuto. Ma chiunque sia sposato da quasi 60 anni e abbia dei figli sa che le cose davvero importanti sono altre...»
Nel 1961 lei scrisse «Mutamenti di struttura dell’opinione pubblica». Nel frattempo l’opinione pubblica è «mutata» soprattutto a causa dei nuovi media. Il suo concetto di opinione pubblica democratica come si pone in relazione alla situazione attuale?
«Oggi persino in Occidente si osserva come, senza un’opinione pubblica attiva, le procedure e le istituzioni democratiche si riducano a una mera facciata. E le opinioni pubbliche politiche funzionano solo sulla base di solidi presupposti normativi. Innanzitutto i circuiti della comunicazione pubblica non possono essere svuotati di ogni contenuto sostanziale né essere sganciati dagli effettivi processi decisionali. Questi due aspetti sono ben illustrati dalle politiche attuate negli ultimi anni a livello europeo per affrontare la crisi».
Internet è un guadagno o una perdita in termini di democrazia?
«Né l’uno né l’altra. Considero l’introduzione della comunicazione digitale la terza più grande rivoluzione mediatica, dopo le invenzioni della scrittura e della stampa. Grazie ai nuovi media un numero sempre maggiore di persone ha ottenuto un accesso sempre più facile a informazioni sempre più varie e memorizzate sempre più a lungo. Con l’ultimo impulso si è avuta anche una mobilitazione e molti da lettori sono diventati autori. Eppure da ciò non scaturisce automaticamente un’opinione pubblica politica incisiva. Nel XIX secolo, con la nascita dei giornali e della stampa di massa, nei grandi stati nazionali l’attenzione di un numero enorme di persone è stata indirizzata contemporaneamente sugli stessi temi. La rete però di per sé non produce queste concentrazioni. Anzi: distrae. Basti pensare ai portali che nascono spontaneamente, ad esempio per collezionisti di francobolli altamente specializzati, esperti di diritto europeo o alcoolisti anonimi. Queste comunità creano, nel mare dei rumori digitali, arcipelaghi sparsi — probabilmente ne esistono miliardi. A questi spazi di comunicazione chiusi in se stessi manca l’inclusività, cioè quella forza capace di coinvolgere tutto e tutti che possiede l’opinione pubblica. La concentrazione richiede la capacità di scegliere temi, contributi e informazioni e di saperli commentare con cognizione di causa. Le competenze del buon vecchio giornalismo, tuttora necessarie, non dovrebbero andare perse nel mare del frastuono digitale».
Con «Fatti e norme» lei ha conferito allo stato di diritto democratico un’importante legittimazione. Possiamo dire che grazie a lei la democrazia ha vinto nel regno delle idee ed ora non le resta che vincere nella realtà?
«Uno slogan cordialmente avvelenato. Di fatto ho solo cercato di analizzare una delle tante chiavi di lettura della democrazia, e non con un approccio utopico, ma piuttosto tramite una ricostruzione che si riallaccia ai presupposti pragmatici tacitamente applicati dai cittadini quando partecipano a un’elezione, si sottopongono a un processo in tribunale o vogliono intraprendere qualche iniziativa contro le lacune dei sistemi di sicurezza sociale. Se queste condizioni normative — ossia che il voto di ciascuno ha pari valore, che i tribunali pronunciano sentenze imparziali, che i governi applicano le politiche per le quali sono stati eletti — vengono sistematicamente violate, le relative pratiche falliscono. Oppure vengono minate dal cinismo dei funzionari e dalla muta astensione di cittadini apatici».
Talvolta le viene rimproverato che il suo modello di politica deliberativo, incanalato verso l’etica del dibattito, plasmando i processi decisionali secondo un processo cognitivo di tipo scientifico, perderebbe di vista le dimensioni essenziali di ciò che è politico.
«In una società culturalmente e ideologicamente pluralistica, il processo democratico è l’unico che consenta di prendere decisioni riconosciute come legittime. Questo procedimento garantisce sostanzialmente due aspetti: l’inclusione, cioè il coinvolgimento di tutti i cittadini, e la deliberazione, ad esempio le campagne elettorali e i dibattiti parlamentari che devono sempre precedere le decisioni politiche degli elettori o dei legislatori. L’esito delle elezioni politiche si differenzia dai risultati dei sondaggi demoscopici soprattutto in virtù di questo elemento del precedente dibattito pubblico. Non ha nulla a che vedere con la nozione di scienza e molto invece con l’attesa di una soluzione possibilmente razionale ai problemi politici. Questa aspettativa di razionalità esige dunque che le proposte siano pubblicamente suffragate da informazioni attendibili e da buone motivazioni».
Uno dei grandi temi di suo interesse è la legittimazione democratica dell’unificazione europea. Alla sua proposta di far diventare il Consiglio dei Ministri il secondo organo legislativo, a fianco del Parlamento dell’Unione, di fatto una rappresentanza dei singoli Stati membri, è stato obiettato che il progetto di unificazione europea mira al superamento delle unioni di stati nazionali e non a cementarle in una «Camera degli Stati»...
«Questa obiezione non coglie la situazione politica. La questione è: l’Assemblea dei capi di governo, che oggi in Europa detiene una posizione semicostituzionale, quanto potere deve cedere al Parlamento Europeo perché il deficit di democrazia perlomeno non gridi più vendetta al cielo? Nella prospettiva di una democrazia transnazionale, che non assuma carattere statale, uno stato democratico federale come gli attuali Stati Uniti è un modello errato. Basta invece una completa uguaglianza giuridica tra il Parlamento Europeo e il Consiglio in qualità di rappresentante degli Stati membri. Per il necessario consenso tra queste due istituzioni legislative occorre inoltre istituire delle apposite procedure».
Lei ha criticato il separatismo. Perché?
«Il cosiddetto principio di nazionalità anziché portare la pace non ha fatto che fomentare nuovi conflitti. Il motivo è ovvio: non esistono popoli etnicamente omogenei. Quando si traccia un nuovo confine, nella migliore delle ipotesi si ottiene il rovesciamento dei rapporti esistenti tra maggioranze e minoranze. Il balzo in avanti compiuto da Genscher con il riconoscimento internazionale della Croazia come stato sovrano e il successivo smantellamento della Jugoslavia ha provocato gli eccidi più sanguinosi cui si sia assistito sul suolo europeo dopo la Seconda guerra mondiale — un errore ripetutosi con il riconoscimento internazionale del Kosovo. È stata l’ultima ombra che il XIX secolo nazionalista ha gettato sul XX. E ora questi spettri nazionalisti rumoreggiano nel cuore di un’Ue che non è nemmeno in grado di trovare la volontà politica di intervenire contro l’autoritarismo soft del governo Orban».
Lei ha anche rivolto un’aspra critica alla politica europea di Angela Merkel. Ma parecchi Paesi indebitati vogliono uscire dal piano di salvataggio. La politica di austerità della Merkel è meglio di come lei l’ha rappresentata?
«Gli squilibri strutturali tra le economie nazionali all’interno dell’Eurozona sono in costante crescita; e nei Paesi in crisi non si può continuare ad attuare la politica della “svalutazione interna” a spese dei ceti socialmente più deboli, delle giovani generazioni, dei servizi pubblici e delle infrastrutture. Altrimenti i populismi di destra diventeranno ancora più forti, i conflitti tra popolazioni europee ancora più profondi e la rabbia contro i tedeschi, ritenuti non solidali, in definitiva aumenterà. Angela Merkel è restia a dire la verità ai suoi elettori. L’errore di costituire una comunità monetaria senza compiere i passi necessari in direzione di un’unione politica è stato fatto da tutti gli Stati coinvolti. Ma ci rifiutiamo di fare i conti insieme con un pasticcio combinato da tutti».
Lei si è sempre considerato un erede degli antichi filosofi che si recavano nell’agorà per svolgervi il »pubblico esercizio della ragione». Ora lei è ritenuto un filosofo «difficile» e la complessità dei suoi testi li rende di non facile accesso a molti lettori.
«Beh sì, i lettori di questa intervista le daranno ragione. Ma non ho mai ambito a rivolgermi a un vasto pubblico. Non vado neanche in televisione. Il mio ambiente preferito è l’università. E quando rilascio interviste o scrivo articoli per i giornali, i redattori devono assumersi la responsabilità delle mie debolezze. Non mi interessa il numero dei lettori, quanto piuttosto che alcuni pensieri raggiungano il pubblico».

(traduzione di Franca Elegante)